Alcune considerazioni (pacate e concilianti) sulla Manovra 2026
- Italia Atlantica

- 7 giorni fa
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Con una destra così, non servono neanche più i comunisti. Roma ha trovato il modo di far pagare agli investitori il costo della propria incapacità di riformare la spesa pubblica. La manovra 2026 contiene due provvedimenti che, letti congiuntamente, configurano un attacco deliberato all’efficienza allocativa del mercato dei capitali italiano: il raddoppio della Tobin Tax e l’abolizione della Participation Exemption per le partecipazioni minoritarie.
La Tobin Tax: dall’eccezione all’anomalia strutturale
L’imposta sulle transazioni finanziarie, introdotta nel 2013 con aliquote già superiori alla media europea, subisce un incremento del 100 per cento a decorrere dal primo gennaio 2026. L’aliquota sui mercati regolamentati sale dall’1 al 2 per mille; quella sui mercati non regolamentati dal 2 al 4 per mille. L’orizzonte programmatico prevede un ulteriore raddoppio entro il 2029, portando l’imposta a quattro volte il livello attuale.
La letteratura economica ha da tempo evidenziato gli effetti distorsivi delle imposte sulle transazioni. James Tobin stesso, cui l’imposta deve il nome, la concepì esclusivamente per i mercati valutari e con aliquote dell’ordine dello 0,01 per cento, finalizzate a ridurre la volatilità speculativa senza compromettere la liquidità. L’applicazione italiana rappresenta una deviazione radicale da quel modello. L’aliquota dello 0,4 per cento sui mercati OTC equivale a quaranta volte l’ordine di grandezza originario, con effetti che trascendono la mera funzione anti-speculativa per configurarsi come prelievo strutturale sul turnover.
Gli studi empirici condotti sulle transaction taxes europee documentano tre fenomeni ricorrenti: contrazione dei volumi scambiati, ampliamento del bid-ask spread, migrazione dell’operatività verso giurisdizioni a fiscalità più favorevole. La Francia, che applica un’aliquota dello 0,3 per cento limitata alle società con capitalizzazione superiore al miliardo di euro, ha registrato una riduzione della liquidità stimata tra il 10 e il 20 per cento sui titoli soggetti all’imposta. L’Italia, con un’aliquota più elevata e una soglia di capitalizzazione più bassa (500 milioni), subirà effetti proporzionalmente più severi.
L’incremento del costo di transazione si traduce meccanicamente in un aumento del costo del capitale per le imprese quotate. Il market maker che opera su titoli italiani incorporerà l’imposta nello spread, riducendo l’efficienza del price discovery. Gli investitori istituzionali, che ottimizzano l’esecuzione su base transfrontaliera, ridurranno l’esposizione relativa al mercato italiano. Il risultato sarà un mercato meno liquido, meno profondo, e strutturalmente più costoso.
La PEX: smantellamento della neutralità fiscale
Il secondo intervento colpisce il regime di Participation Exemption, cardine della fiscalità societaria italiana dal 2004. La norma vigente prevede che i dividendi percepiti da soggetti Ires concorrano alla formazione del reddito imponibile nella misura del 5 per cento, con esenzione del restante 95 per cento. Tale regime risponde a un principio consolidato nella teoria della tassazione societaria: evitare la doppia imposizione economica degli utili, già tassati in capo alla società che li produce, al momento della loro distribuzione alla società partecipante.
La manovra 2026 elimina questo regime per le partecipazioni inferiori al 10 per cento del capitale sociale. I dividendi percepiti su tali partecipazioni saranno integralmente imponibili ad aliquota Ires del 24 per cento, a partire dalle delibere di distribuzione adottate dal primo gennaio 2026. La stratificazione storica delle riserve è irrilevante: anche utili accantonati in esercizi precedenti sconteranno il nuovo regime se distribuiti dopo quella data.
L’effetto è una discriminazione fiscale fondata sulla dimensione della partecipazione, priva di giustificazione economica. Un euro di utile distribuito a un socio al 9 per cento subirà un’imposizione complessiva del 46 per cento circa (24 per cento Ires in capo alla partecipata, più 24 per cento sul dividendo lordo in capo alla partecipante), mentre lo stesso euro distribuito a un socio all’11 per cento manterrà un’imposizione effettiva del 25,2 per cento. La soglia del 10 per cento non corrisponde ad alcuna discontinuità nella natura economica dell’investimento; costituisce un cutoffarbitrario che distorce le scelte di portafoglio.
Il problema si aggrava considerando l’asimmetria con il regime delle plusvalenze. L’articolo 87 del TUIR continua a prevedere l’esenzione del 95 per cento per le plusvalenze da cessione di partecipazioni qualificate, indipendentemente dalla percentuale detenuta, purché sussistano i requisiti di holding period e classificazione contabile. Si crea così un incentivo perverso: detenere la partecipazione senza incassare dividendi per poi realizzare la plusvalenza in regime PEX. La norma penalizza la distribuzione degli utili rispetto al loro accumulo, contraddicendo ogni logica di incentivo alla circolazione del capitale.
Assonime ha correttamente rilevato che la modifica favorisce strutture di investimento estere. Un veicolo lussemburghese o olandese che detenga partecipazioni italiane sotto soglia beneficia delle direttive europee madre-figlia, con ritenuta ridotta all’1,2 per cento. L’investitore italiano che opera direttamente paga il 24 per cento. Il messaggio normativo è inequivocabile: conviene interporre un veicolo estero, alla faccia di ogni retorica sul rimpatrio dei capitali.
Implicazioni sistemiche: l’Italia si autoesclude
L’effetto congiunto dei due provvedimenti configura un deterioramento strutturale dell’attrattività del mercato azionario italiano.
Sul lato della domanda, l’investitore istituzionale fronteggia costi di transazione raddoppiati e rendimenti da dividendo decurtati per le posizioni minoritarie. L’asset allocation ottimale risponderà riducendo il peso dell’Italia nei portafogli europei. I fondi pensione e le compagnie assicurative, vincolati a logiche di total return, trasferiranno flussi verso mercati a fiscalità più neutrale.
Sul lato dell’offerta, le imprese italiane che intendono quotarsi sconteranno un costo del capitale più elevato, riflesso della minore liquidità e della compressione dei multipli. Le operazioni di IPO diventeranno meno convenienti rispetto al private equityo al debito bancario. La Borsa italiana, che già presenta una capitalizzazione pari al 35 per cento del Pil contro il 120 per cento degli Stati Uniti e il 75 per cento della media europea, accentuerà la propria marginalità.
La struttura proprietaria del capitalismo italiano, caratterizzata da partecipazioni incrociate e holding familiari, subirà un aggravio specifico. Le società che detengono portafogli diversificati di partecipazioni minoritarie vedranno aumentare il carico fiscale effettivo, con conseguente pressione sulla distribuzione di dividendi alle persone fisiche.
L’effetto a cascata può raggiungere aliquote marginali prossime al 60 per centosugli utili originari, un livello confiscatorio che spinge verso la delocalizzazione delle holding o l’interposizione di strutture estere.
La miopia come metodo di governo
Queste misure non sono incidenti di percorso. Rappresentano la scelta consapevole di sacrificare l’efficienza del mercato dei capitali sull’altare delle coperture di bilancio a breve termine. Il gettito atteso è modesto: 1,5 miliardi in tre anni dalla Tobin Tax, un miliardo annuo dalla stretta sulla PEX.
Somme che coprono qualche mese di spesa corrente, mentre il danno alla competitività del sistema finanziario italiano si misurerà in decenni.
Ancora più grave il dato politico: un governo di destra assoggettato alle trovate criptosocialiste e succube della Ragioneria Generale dello Stato, una burocrazia più ideologica che capace.
L’Italia continua a chiedersi perché i capitali fuggano. La risposta è nella Gazzetta Ufficiale.










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