Dopo il 1989, la frantumazione dell'impero sovietico provocò l'accelerazione della rifondazione europea a Maastricht, insieme al graduale spostamento a Est dell'Unione Europea.
L’Europa odierna è come una faglia che si sposta e si aggiusta attraverso scosse simili a quelle che osservammo con la caduta del muro di Berlino e la fine del Patto di Varsavia.
La crisi istituzionale dell’UE ha già modellato dei blocchi regionali che somigliano all’antica tetrarchia della Roma morente dopo Diocleziano: Germania e Francia in una dimensione geopolitica, militare e industriale, di tipo neo-carolingio; un gruppo mediterraneo più marginale; il gruppo di Visegrad e i baltici o un'area geopolitica assai composita che collega Adriatico, Mar Baltico e Mar Nero. Tutto ciò mentre il Regno Unito pare avviato a lasciare l’UE per ricostruire un rapporto privilegiato con la sponda americana dell’Atlantico.
Il nuovo ordine europeo, tuttavia, presuppone che assurgano a nazioni di rango solo le nazioni capaci di auto-riformarsi rapidamente, a livello centrale e periferico, condividendo informazioni e relazioni in un circuito più ristretto rispetto all’insieme di tutti gli Stati membri.
L’esperienza riformatrice e neocoloniale di Macron è paradigmatica della vivacità e della plasticità mentale con cui le élites francesi, a partire da Jacques Attali, dimostrano di poter guidare la transizione anche attraverso l’articolazione geopolitica delle aree regionali.
In presenza di dualità quali città/campagna, centro/periferia, inclusione/esclusione - le vere incubatrici dell’odio verso la Globalizzazione - questi esperimenti politico-istituzionali provano a scongiurare il ripiegamento di ogni nazione sul vecchio modello di Stato-nazione o, peggio, verso ipotesi secessionistiche sull’esempio catalano.
Durante la prima metà del Novecento, anche i Totalitarismi hanno rappresentato una reazione nazionalistica e dispotica a fenomeni complessi di mondializzazione, provocando le conseguenze mostruose che conosciamo, in particolare in Germania, in Italia e in Giappone.
L’articolazione globale dei poteri pubblici, dunque, versa in una crisi profonda.
Il Global Wealth Report 2018 di Credit Suisse sottolinea le sperequazioni legate alla distribuzione della ricchezza globale: per usare un gioco di parole, i policy maker hanno permesso la concentrazione di una ricchezza dissennata nelle mani di pochi (le élites private) a danno di molti (i cittadini).
Fukuyama, che dopo il 1989 previde la «fine della storia» come esito felice per la civiltà occidentale, non comprese la questione dirimente: non c’era alcuna fine della storia, ma l’avvento di problemi giganteschi, a cominciare dalle trasformazioni digitali e dai cambiamenti climatici, che diventavano problemi politici. Il populismo altro non è che una reazione a fenomeni complessi che si sono sedimentati per decenni e che ora sono esplosi.
I flussi di rifugiati politici e di migranti economici dal Medio Oriente e dall’Africa, connessi al fallimento delle politiche d’integrazione delle terze generazioni; il sovvertimento evocato da Minsky delle «regole del gioco» monetarie e finanziarie, la fine del welfare state del XX secolo, l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale, il rischio del bioterrorismo e delle pandemie, le guerre per l’energia, il Jihādismo: questi fenomeni troveranno soluzione con politiche democratiche o tecnocratiche o autocratiche, e comunque per un lungo periodo produrranno insicurezza, instabilità, conflitto sociale.
La digitalizzazione, inoltre, ha esteso il terreno di battaglia a livello globale, dove la proiezione del potere e l'interesse nazionale sono già regolati da dinamiche all'interno di reti più che dai comportamenti dei singoli Stati-nazione.
La sicurezza delle infrastrutture critiche, peraltro, è messa a repentaglio dalle stesse diseconomie cibernetiche. Emanuele Severino disse a proposito della tecnica: «L’incremento senza fine della potenza è destinato a diventare lo scopo del pianeta. Nessuna di quelle forze può avere pertanto la capacità di regolamentare quell’incremento. È esso a regolamentare sé stesso, cioè a espungere tutto ciò che lo ostacola o lo rallenta».
Si possono ipotizzare due scenari: la fine del Mercatismo scuoterà l’establishment, probabilmente con una nuova crisi finanziaria, riequilibrando il dualismo tra élites private ed élites pubbliche, che vede queste ultime regolarmente sopraffatte dalle prime; oppure assisteremo ad un’accelerazione ulteriore dei cambiamenti di natura autocratica, con un deterioramento dei diritti individuali.
La Cina vive una trasformazione indispensabile ma complessa, finalizzata a una crescita più sostenibile con un riequilibrio degli investimenti e della produzione manifatturiera a favore di consumi e servizi. L'integrazione globale ormai è fondamentale per tutte le economie e non vi è alcun interesse a sostenere una guerra commerciale con gli Stati Uniti o sviluppare ulteriori policy protezionistiche. In tempi nemmeno tanto lunghi, si può prevedere l’insostenibilità stessa della proprietà pubblica quale pilastro del sistema economico.
Sono necessarie riforme atte ad affrontare le cause all'origine dell'eccesso di capacità produttiva in più di un settore industriale e anche il ruolo delle imprese di Stato. In Cina urge affrontare criticità interne, sollevare milioni di persone dalla povertà, ridurre le diseguaglianze in continua crescita nonché l’altissimo livello di corruzione.
L’obiettivo di Xi Jinping è quello di ripristinare i valori dell'antica cultura confuciana cinese legata all'autorità gerarchica, che Mao cercò invano di cancellare, e di continuare a sostenere la riforma del mercato di Deng Xiaoping e il progetto egemonico della Nuova Via della Seta. La millenaria filosofia cinese dell’I Ching (Il libro dei Mutamenti), che parla di «continuità e cambiamento» - in termini fondamentalmente ostili alla cultura occidentale - e la nozione stessa di concentrated power del presidente Xi, sono i pilastri di questa Terza Rivoluzione che continuerà ad essere guidata dalla forza tirannica del Partito Comunista.
Giancarlo Elia Valori, in una disamina adamantina sulle strategie d’influenza politico-economiche di Cina e Usa, spiega: «Certo, la Cina attuale porta avanti, simultaneamente, la Belt and Road Initiative, la RCEP, ovvero la Regional Comprehensive Economic Partnership, con i dieci Stati dell’ASEAN e i sei con cui l’ASEAN ha ulteriori trattati di libero scambio, poi con l’Area di Libero Scambio Cina-ASEAN; ma gli Usa hanno creato già la loro rete commerciale e economica anti-BRI con l’USMCA, lo US.-Mexico- Canada Trade Agreement, poi con il probabile ritorno di una proposta del vecchio TTP, Trans-Pacific Partnership o, ancora, il nuovo Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership».
Parallelamente, la Russia necessita di investimenti e tecnologie straniere, mentre affronta con fatica le sanzioni internazionali e il problema del costo del petrolio (riducendo la produzione di greggio nel tentativo di sostenere le quotazioni del prezzo del barile). Il sistema economico russo rimarrà dipendente da fattori fondamentalmente esterni e nonostante lo sviluppo di alcune infrastrutture energetiche, le esportazioni di materie prime non aumenteranno significativamente.
L'economia continuerà a ristagnare e il governo ridurrà parzialmente la spesa sociale. L’attuale sistema di governo russo non collasserà, sebbene vi siano segnali di destabilizzazione, e le autorità centrali faticheranno ad attuare le necessarie riforme di natura politica ed economica.
Il Mediterraneo resta per Mosca il principale punto nevralgico del proprio disegno geopolitico e la guerra in Siria ne è la conferma. L’obiettivo è quello di mantenere le posizioni acquisite ai tempi dell’Urss, in particolare la presenza della flotta navale nei porti siriani, in ossequio allo storico bisogno russo di uno sbocco nei mari caldi. Mosca ha salvato la presidenza di Bashar al-Assad in Siria ma a caro prezzo, e gli analisti di Chatham House affermano che Putin stia cercando la via di uscita da alcuni teatri strategici che sono ormai finanziariamente insostenibili.
La Russia tenterà di dividere gli Stati Uniti dai suoi alleati offrendo a questi ultimi la prospettiva di relazioni normalizzate e di una cooperazione economica rafforzata (l’Italia è un caso emblematico).
Mosca intensificherà il rapporto bilaterale con la Cina, riconoscendo a Pechino il ruolo di potenza unilaterale nell’Asia Centrale, mentre aumenterà la propria influenza in Bielorussia, in Moldavia e nel Caucaso meridionale, così come non rinuncerà al proposito di assoggettare l’Ucraina.
Putin fa uso della guerra ibrida per fornire risposte a interrogativi politici, connessi alla sopravvivenza stessa dello Stato russo, e per riuscirci punta a ottenere obiettivi mirati di medio-periodo: orientare la politica estera ed economica dei governi europei più fragili; creare pretesti per sviluppare conflitti armati in ambito regionale; annettere territori confinanti; garantire agli Stati europei l'accesso al mercato russo (gas, armamenti, ecc. ecc.) a condizioni vincolanti.
James Wirtz è del parere che «La Federazione Russa, più di ogni altro attore nascente sulla scena “cyber”, abbia messo a punto un modo per integrare la guerra cibernetica in una grande strategia in grado di raggiungere obiettivi politici». C’è, evidentemente, una convergenza d’interessi nel contesto di un disegno globale che unisce i paesi illiberali.
Freedom House ha evidenziato come vi sia ormai una critica generalizzata nei confronti della diffusione della democrazia, e, per certi versi, si stia sviluppando una vera e propria promozione culturale del concetto di autoritarismo. La guerra ibrida russa agli Stati europei (poco noti sono i casi olandese e danese) e agli Usa, ma anche l'esportazione cinese verso altri regimi autoritari di tecnologie per la sorveglianza di massa, ne sono la conferma.
L’ordine liberaldemocratico sta degenerando con un’accelerazione mai vista prima, benché sia riuscito a imporsi in passato su Totalitarismi come il Nazismo e il Comunismo sovietico. La stabilità tra le aree di influenza è perturbata; essa produce un’oscillazione perché siamo vicini ad un punto di rovesciamento che sposterebbe l’equilibrio a favore delle forze dispotiche. Se un simile cambiamento si verificasse, la nostra libertà cederebbe il passo a una definitiva prospettiva panottica. L’Europa è terreno di conquista politica ed economica per rogue states, gruppi terroristici, mafie, ma anche per multinazionali assurte a soggetti politici globali privi di una legittimazione politica, in un crescendo in cui controllori e controllati migliorano ogni giorno le proprie strategie offensive e difensive, convenzionali, asimmetriche, ibride.
L’incertezza del quadro internazionale ha sospinto gli Stati Uniti a rimodulare impegni e risorse per rafforzare i contesti multilaterali di appartenenza, nell’Europa orientale ma anche nell’ambito siriano, afghano e iracheno (più in generale in Medio Oriente) nell’ottica di un rafforzamento dell’alleanza strategica con Israele.
La cooperazione scientifica e tecnologica degli Usa (ma anche dell’Italia tramite Leonardo, Sipal, Ids e diverse infrastrutture critiche) con Gerusalemme si integra con quella militare, anche perché l’industria bellica sarà sempre più legata allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale e alla robotica.
La Nato, di cui ricorre il 70° anniversario della fondazione, ha modificato la sua missione durante i decenni successivi alla Guerra Fredda e ha sviluppato una portata d’intervento globale: probabilmente essa si appresta a cambiare nuovamente veste, alla luce delle criticità che emergono dal teatro baltico a quello latino-americano passando per quello asiatico.
Nonostante alcune apparenti contraddizioni in seno agli Stati occidentali (in realtà il nuovo concetto di difesa franco-tedesco sarà complementare a quello della Nato) questo impulso ridurrà l'influenza di Cina e Russia e garantirà le risorse utili all'egemonia capitalista almeno per altri cento anni, anche grazie alla deterrenza nucleare e attraverso un riassetto più agile, meno convenzionale e più irregolare.
Su Aspenia, Robert Kagan ha scritto: «Oggi è del tutto naturale che, di fronte all’ascesa di nazioni come la Cina, le potenze autoritarie tornino agli usi e costumi di un tempo. Quegli usi e costumi sono plasmati da forze potenti: una geografia immutabile e un patrimonio storico e di esperienze condiviso. La Cina fa proseliti in virtù del suo successo economico, ma beneficia anche del fatto che, in un clima di generale incertezza e insicurezza, la gente tende a rifugiarsi nella tribù, nella razza o nella nazione. In confronto a tutto ciò, specialmente in situazioni di stallo e divisioni, la democrazia può apparire meno energica ed efficace. Di qui l’impressione che il liberalismo sia incapace di dare risposte, e la tendenza a scaricare la colpa sugli ideali illuministici di libertà e cosmopolitismo. L’Occidente è dunque chiamato a gestire una duplice minaccia, interna ed esterna, all’ordine liberale: sarà questa la sfida decisiva nei decenni a venire».
Come la fine del Comunismo non ha segnato la fine della storia, i sommovimenti geostrategici attuali non suoneranno la campana a morto dell’ordine liberaldemocratico o dei sistemi politici fondati sul pluralismo e sulle relazioni internazionali. Ma il rischio che ciò accada è elevato, soprattutto in presenza di grandi sperequazioni economiche nelle società occidentali.
Ciò che rende le democrazie migliori delle dittature sono l’apertura, la trasparenza e il pluralismo, e sono proprio queste virtù a rendere i nostri modelli sociali particolarmente vulnerabili alle manipolazioni delle dittature.
Ritorna alla mente il successo del Piano Marshall, dopo la Seconda Guerra Mondiale, anche sul piano della percezione della forza del sogno americano.
Un’importante contromisura, in tempo di pace, è quella di restare fedeli a noi stessi, ai nostri valori ed ai principi fondativi del patto euro-atlantico, ma anche lavorare intorno ad un nuovo equilibrio sociale ed economico, soprattutto in Europa, che lo sostenga per metterlo al riparo dalle influenze e dalle penetrazioni delle forze illiberali.
Marco Rota
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