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  • angelomucci

OSSERVAZIONI ATLANTISTE TRA LIBERISMI E SOCIALISMI.



Recentemente tutti i paesi europei hanno dovuto prendere una posizione - diplomatica e politica - sull’acceso dibattito tra interventisti e non interventisti nel conflitto ucraino. La questione sollevata dal Presidente francese Macron ha in effetti imposto ai ministeri degli stati membri di dover chiarire come e quali risorse usare per continuare ad appoggiare la resistenza ucraina nel conflitto in corso. Tanto che recentemente anche la Presidente della Commissione europea von der Leyen ha rilasciato dichiarazioni assai realiste sul futuro del neutralismo occidentale: “La guerra non è impossibile, l’Europa si armi: libertà UE in gioco”. Stando così le cose, è tuttavia necessario chiarire quali prerogative, quali diritti particolari o qualità distintive debbano essere poste alla base di un’azione congiunta della Nato e dei suoi paesi aderenti, così forti da muovere gli ideali europeisti ed atlantisti verso l’uso diretto delle armi. Ed a quale prezzo. Per affermare dei princìpi è però bene mostrarne le origini comuni, le radici storiche che possano far riflettere sulla vera natura delle libertà che intendiamo difendere e che hanno sollevato il popolo ucraino alla rivolta e l’occidente a sostenerlo, fino a tentare di comprendere il disvalore che intendiamo combattere.

Il conflitto russo ucraino ha evidenziato come esista un’accentuata dicotomia storica tra la politica di Lenin e quella del leader russo Putin. Non è la prima volta infatti che il Presidente russo Vladimir Putin rammenta le radici storiche dell'Ucraina, sostenendo che il Paese non sarebbe esistito se non fosse stato per Vladimir Lenin, il leader bolscevico fondatore dell'Unione Sovietica. "Lenin e i suoi associati hanno creato l'Ucraina moderna, strappando territori alla Russia", ha affermato il capo del Cremlino definendo un "errore" quelle scelte e che "l'Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia comunista". Già in passato Putin aveva criticato la politica delle nazionalità di Lenin e le misure di "korenizatsiya", ovvero di costruzione di comunità nazionali con proprie identità etno-culturali. Una politica che a suo dire "consolidò a livello statale la divisione tra i tre popoli slavi, russo, ucraino e bielorusso, al posto della grande nazione russa". Questa dicotomia politica è evidentemente riconducibile alla storia del ‘900 dei socialismi e dei liberismi europei. Nel panorama italiano dello scorso secolo, Gramsci e Gobetti giunsero a ritenere come nelle autarchie - ed, allora, anche nelle plutocrazie – fosse la rivolta proletaria a consentire il perseguimento del fine ultimo: la coscienza di classe e la nascita della borghesia. In Francia fu il filosofo Sorel a sostenere il mito della violenza – ed, allora, della guerra – per scardinare gli elementi della struttura economico giuridica dello Stato. Le due tesi furono poste alla base del volontarismo rivoluzionario socialista. La consapevolezza della coscienza di classe doveva essere il frutto dello sciopero generale, così come lo sarebbero stati i martiri per la rivoluzione cristiana, e la solidarietà della classe operaia nella rivoluzione comunista. Il terreno economico su cui simili accezioni avrebbero dovuto operare era quello dell’economia agricola. Al punto che ben potrebbe comprendersi come la crisi agricola messa in atto dalla guerra in Ucraina, granaio d’Europa, sia un’analogia perfetta della rivoluzione agricola – fondata sull’uomo quale forza produttiva – del primo ventennio russo del 900 e che, forse, Putin avrebbe lasciato intendere le sue premure politiche per la società russa più che per l’economia del suo Paese. Anche il liberismo, quello soreliano ad esempio, muoveva da una componente nazionalista, ossia dalla concorrenza commerciale di identità tra Stati, di cui l’Ucraina attualmente parrebbe il martire. Così come anche Gramsci, appoggiando l’idea del liberismo come espressione della coscienza proletaria della società, sosteneva il mito dell’intransigenza tra proletariato e borghesia, in un periodo storico in cui in Europa si diffondeva il socialismo francese, fautore di una tattica di collaborazione riformista con il proletariato. Più in generale Sorel e Gobetti promuovevano un liberismo frutto della classe operaia, consapevoli del dramma del socialismo, ossia dell’incapacità di rendere la classe operaia una classe politica. Da questi spunti intellettuali si faceva avanti la condizione di assenza di intransigenza e la necessità di una disciplina rivoluzionaria, il cui compromesso socialista risiedeva nel sindacalismo rivoluzionario. Gramsci, d’altro canto, riteneva che l’abolizione delle nazionalità avesse richiesto un liberismo assai maturo, dove era la coscienza della classe operaia della società ad esprimersi. Il sostegno filosofico del Sorel, partendo dalla società intransigente, richiedeva lo sviluppo della concorrenza commerciale di identità tra Stati, il cui fine era appunto una società liberale. Scopo degli operai era allora quello di far nascere due classi antagoniste, borghesi e proletari, attraverso lo strumento dello sciopero come atto antagonista all’economia ed alla concorrenza. Gramsci ad esempio riteneva che dallo sciopero potessero emergere i limiti imposti dalla nazionalità, dissolti e sostituiti con la pratica internazionalista della divisione comunista del lavoro. Il liberismo gramsciano resta evidentemente diverso dal liberismo naturale, in quanto afferma che la ricchezza non debba nutrirsi poi del libero guadagno economico. Da questo tentativo di esporre una sintesi può comunque intravedersi la dimensione del pensiero liberista gramsciano, internazionale ovvero nazionale, su cui si innesta conseguentemente la dimensione morale, umana, di Einaudi (se cioè vista al di fuori della dimensione aritmetica, di calcolo dell’economia). Se dunque la dimensione economica risiederebbe nella classe capitalistica e quella spirituale nella classe proletaria, i veri intransigenti, il vero motore della società moderna, sarebbero i liberisti. Sarebbe questa infatti la dimensione nella quale il proletariato vive in attesa, si nutre dello Stato borghese. Di certo l’esperienza inglese e tedesca non scisse la dimensione economica da quella politica in tal senso, così come invece avvenne in quella russa, ucraina, italiana o francese e che, dunque, la divisione tra politica ed economia – la stessa distinzione tra liberisti e liberali – sarebbe il fulcro dell’assenza di intransigenza nelle società moderne. Gramsci stesso sosteneva infatti che occorreva saturare una simile scissione tra politica ed economia, imprimere nell’uomo il principio solidaristico dopo le ferite inferte dal monopolio e dall’arricchimento individuale; una necessità dalla quale deriverebbe l’equivalenza tra internazionalismo e liberismo.

Fino ad oggi. I movimenti colorati sorti in Europa dal 2004 e proseguiti a macchia di leopardo hanno sconcertato l’immobilismo della società russa, condizionata storicamente da un moto perpetuo che vede addivenire la plutocrazia antecedente all’oligarchia ed all’autarchia. Per il lelinismo, infatti, la legge morale era solidarietà nazionale del popolo russo; una volontà sociale russa opposta al socialismo e che ambisce evidentemente al nazionalismo liberale. Si è detto del socialismo francese, opposto all’uomo intransigente. Un socialismo diplomatico, riformista, pessimista anche, sicuramente molto temuto in Russia. E che il mito della violenza sia coltivato per sostenere il desiderio di azione verso la consapevolezza. Affrontare quindi il tema del liberismo in Russia non è semplice né sul fronte della democrazia né in quello della politica; eppure è necessario.

E’ bene infatti sottolineare le diverse consapevolezze che possono caratterizzare il liberismo, ancor più in un paese politicamente avanguardista come la Russia. Per dar manforte all’argomento, ancora una volta gli strumenti intellettuali ci vengono sufficientemente proposti dai pensatori del novecento. Regole e morale per Einaudi. Intransigenza e solidarietà per Sorel. Sotto questa prospettiva ecco allora che la minaccia ucraina appaia allo statista russo una minaccia alla volontà sociale del popolo russo, il cui spirito necessiterebbe si nuove alleanze strette con spirito intransigente, nella consapevolezza del contesto imperialista occidentale ed americano, quale forma di liberismo ex ante, e nazionalista russo, quale forma di liberismo ex post. Sì, perché la Russia del nuovo millennio si muove politicamente in una fase socialista, un socialismo post liberismo (semmai avuto), caratterizzato da rettitudine rivoluzionaria. E Putin ne sarebbe la guida. In fondo, la guerra di Putin è una guerra di classe, verso un ambito liberismo nazionale. Il suo ruolo leader è legittimato dalla filosofia soreliana che vede nel parlamentarismo l’esercizio oratorio di membri privi della nozione di esperienza. Se dunque nella storia della Russia il passaggio da capitalismo a socialismo sarebbe avvenuto grazie all’intelligenza di proteggere gli acquisti del passato borghese – minati oggi da sequestri, sanzioni e misure economiche internazionali avverse – il problema democratico russo sarebbe il vero pericolo, come hanno dimostrato le recenti elezioni. La coscienza di classe supera infatti la borghesia nella capacità produttiva e lo Stato borghese si regge proprio perché esiste un centro di coordinazione della forza militare. Così se anche per Gramsci la disciplina della classe operaia è fonte del potere dello Stato (si noti che in Italia la rivoluzione comunista si presentò come rivoluzione tecnico industriale), il pericolo democratico avrebbe un alleato nelle tendenze socialiste, ovvero in quella forma di neutralismo (piuttosto la guerra, direbbe Putin!) che caratterizzò nel ‘900 l’Italia e la Francia (piuttosto la guerra, direbbe Macron!) e che dice “no!” al capitalismo ed al proletariato, i quali si nutrono vicendevolmente proprio della coscienza di classe.

E’ chiaro come Putin tema quanto mai l’avvento del socialismo, e per quali ragioni. Perché avere una visione politica di lungo periodo che muova dalle classi sociali russe alla coscienza, per poi maturare intelligencija e violenza/rivoluzione fino alla rettitudine rivoluzionaria, in cui risultato è il capitalismo ed i cui antagonisti resterebbero nel comunismo e nell’imperialismo, significa trovare nel pensiero Leninista e nel popolo ucraino un territorio fertile, ed esogeno, per l’azione politica. Affermare che la crisi del capitalismo risieda negli alti capitali e, man mano, nei sempre più bassi prezzi significa avere consapevolezza che il capitalismo possa andare oltre e assumere le vesti di un capitalismo finanziario. Un capitalismo di regole e di classe di cui la Russia – come anche la Cina - è sprovvista. E proprio qui, nell’essenza del capitalismo, si divide la politica dall’economia, fino a legittimare i tanti contesti di crisi internazionale come quello ucraino, appunto. La crisi ucraina, ad esempio, null’altro ha presentato al mondo se non la presa di coscienza dei problemi sorti sul monopolio delle risorse, come il gas; una crisi il cui fine ultimo era quello di impedirne la messa in commercio della risorsa energetica, in attesa del termine degli stock, per poi rifornirne di nuovo.

Se tutti questi atteggiamenti sono tipici dei trust, degli accordi tra imprese, e dei monopolisti, dell’imperialismo in generale, allora il vero pericolo a cui risponde attualmente la Russia, nel timore di una crisi sociale interna senza precedenti, è quello della corruzione (di cui prima ne è stata vittima l’Ucraina ed, ancor prima, l’ex URSS), causa della caduta della piccola borghesia e della forza della società, in una fase descrivibile come ascendente del socialismo.

Il pessimismo socialista potrà concretamente minare le prossime elezioni Europee, parimenti a quello nazionalista. Le attenzioni prestate al modello realista occidentale non devono distogliere l’attenzione dai pericoli dei nuovi modelli socialisti che, malauguratamente, hanno visto l’Ucraina portavoce dei difetti del sistema e pagarne il prezzo con guerra e corruzione. L’occasione neutralista sul fronte ucraino e democratica sul fronte politico dell’occidente sarebbe buona per ripensare concretamente ai modelli socialisti attualmente proposti, per non minare la futura società europea con strumenti volti a dematerializzare le classi, compresa la moderna classe capitalista finanziaria, con l'intento di voler destituire il capitalismo sano con tattiche politiche incerte e persino storicamente sconvenienti.                

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