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PMI e COVID19: l’Internazionalizzazione per crescere e ripartire

Aggiornamento: 11 mar 2022

Il dibattito in Italia sulle conseguenze dell’emergenza COVID19 sta virando in maniera sempre più rapida e incalzante dal terreno sanitario a quello sociale e soprattutto economico.

Il blocco prolungato di quasi tutte le attività produttive da Nord a Sud genera legittime preoccupazioni sul futuro e sulla stessa sopravvivenza di quelle piccole e medie imprese (PMI) che costituiscono la spina dorsale del nostro tessuto produttivo. Mentre lo Stato, la politica e i corpi intermedi cercano di comunicare tra di loro in un clima oscillante tra stentata collaborazione e scontro frontale, gli strumenti messi a disposizione delle imprese sono insufficienti e offuscano ancora di più, se possibile, le prospettive di riapertura.

La cosiddetta “Fase 2”, che attenua la quarantena dopo l’iniziale e necessario contenimento, non porterà certamente a un ritorno istantaneo alla vitalità economica del periodo pre-crisi. Al contrario, le indiscrezioni sulle future norme di distanziamento sociale lasciano presagire con sempre maggior insistenza l’ipotesi di una stentata – se non pressoché inesistente – ripresa dei consumi interni. Le PMI, indipendentemente dalla loro solidità e fatte salve quelle impiegate nei settori non investiti dall’emergenza COVID (alimentare, medicale e farmaceutico, tecnologico e comunicazioni), non potranno fare affidamento sulle dinamiche del mercato interno. Che cosa fare, quindi?

L’internazionalizzazione può rappresentare, in prospettiva, la linfa della ripresa per le PMI. Prima di questa emergenza, il nostro export valeva 460 miliardi di euro (dati CRIBIS Export), circa un quinto del nostro PIL. Auspicando una graduale e settoriale ripresa del commercio internazionale, i mercati esteri torneranno a essere i terminali di sbocco verso i quali reindirizzare i prodotti italiani. In fin dei conti, l’attrattività del Made in Italy è da sempre il motore delle nostre esportazioni: in un momento in cui i consumi interni saranno in fase di sofferenza e di lento recupero, la via dell’internazionalizzazione diviene ancora più valida. Abbiamo osservato come il combinato disposto di blocco totale delle attività e incremento indotto dalle tecnologie informatiche e di telecomunicazione abbia prodotto e stia producendo in Italia una sorta di “digitalizzazione a tappe forzate”. Allo stesso modo, la paralisi del mercato interno e la forza delle nostre esportazioni possono rafforzare la “cultura dell’internazionalizzazione” delle PMI. Di necessità, virtù.

Il ragionamento è valido non solo per le aziende che già esportano ma anche, anzi soprattutto per quelle che detengono un potenziale per affacciarsi ai mercati esteri. Analisi alla mano, oltre 2 milioni di aziende detengono un potenziale per fare export, ma appena 220 mila seguono la via dell’internazionalizzazione (dati CRIBIS Export). Il lasso di tempo che ci divide dall’inizio della “Fase 2” e dalla ripartenza dei consumi interni può essere impiegato per dotare la propria azienda di condotte e accorgimenti utili ai fini dell’internazionalizzazione. Accorgimenti che, è bene sottolinearlo, non implicano investimenti in termini di capitale – evidentemente insostenibili in una simile congiuntura economica – ma possono essere adottati senza costi (o a costi molto ridotti) anche grazie alla riorganizzazione delle risorse già disponibili, alla tecnologia e al tanto discusso “lavoro da casa” (il termine smart working contiene un velato giudizio positivo, che al momento sembra invece opportuno sospendere).

Il punto di partenza potrebbe essere, ad esempio, una sana attività di business intelligence volta a raccogliere dati e analizzare informazioni strategiche, il più delle volte open source o facilmente reperibili. Innanzitutto, è necessaria un po’ di autoanalisi: Quali sono i punti di forza e di debolezza della mia azienda? Qual è il miglior Paese per esportare il mio prodotto? Sono in grado di gestire il rischio commerciale e di credito? Conosco la legislazione del mercato che andrò ad aggredire? Tutte domande, queste, a cui è possibile rispondere in modo autonomo e senza costi. Successivamente, si può procedere con la profilazione del bacino di clienti e dei potenziali distributori. Per esempio: Qual è la struttura societaria del distributore? Conosce a fondo il mercato locale? E’ dotato di un buon management? Rispondendo a queste domande si potrebbe ricavarne la capacità produttiva e l’affidabilità finanziaria. Tutto questo è molto più di una semplice ricerca di mercato, che molto spesso si rivela poco utile. E’ un’indagine pragmatica fortemente ancorata alle peculiarità e alle possibilità della propria azienda.

Dal lato delle istituzioni, esistono degli interlocutori che possono offrire informazioni complementari sul processo di internazionalizzazione e, a vario titolo, sostegno operativo alle aziende. Il sistema-Italia mette a disposizione delle imprese l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero (ICE) e gli uffici economici delle Ambasciate d’Italia; a coordinare tale attività vi è la Direzione Generale Sistema Paese del Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionali (MAECI). Il ruolo di questo ministero nella promozione economica all'estero e l'attrazione di investimenti risulta ulteriormente rafforzato dalla recente attribuzione della delega del Commercio Estero unitamente all'indirizzo sull'ICE, senza tralasciare che altre direzioni generali del MAECI hanno competenze in campo economico-commerciale. Anche i corpi intermedi come le camere di commercio, infine, potranno nuovamente facilitare l’approccio ai mercati esteri e ai loro stakeholder.

Sono al vaglio modalità di finanziamento da parte delle istituzioni e destinate all’export, le quali si auspica possano fornire un aiuto concreto alle PMI. Con il “Decreto Liquidità” del governo, ad esempio, sono stati stanziati 200 miliardi a supporto dell’export. SACE SIMEST (controllate di Cassa Depositi e Prestiti) e Unicredit hanno stanziato un plafond da 1 miliardo per sostenere le imprese italiane, offrendo finanziamenti a breve termine (erogati da Unicredit e garantiti da SACE), a favore delle aziende clienti della banca per far fronte alle esigenze di capitale circolante. Sono stati previsti 4 miliardi aggiuntivi per sostenere il capitale circolante, rilanciare le esportazioni e diversificare i mercati di riferimento. Anche Regione Lombardia ha messo a disposizione il Fondo Made in Italy, con il quale si ripartiscono risorse per la promozione integrata presso il MAECI.

Chiudono il cerchio accorgimenti operativi che – oltre a tutto quanto sopra – possono facilitare il processo, come ad esempio reclutare personale che parli la lingua inglese e/o la lingua del Paese target. La scarsità di risorse in dote alle PMI, severamente colpite dagli effetti dell’emergenza, non permetterà di contrattualizzare nuova forza lavoro, con ogni probabilità. In questo contesto, può essere funzionale investire quanto basta sulla formazione dei propri dipendenti, anche mediante i numerosi corsi online che ne sviluppano minime capacità linguistiche essenziali alla comunicazione con gli operatori commerciali. Il sito web aziendale rappresenta lo scaffale virtuale della propria merce: può essere utile aggiungere anche una sezione in lingua inglese contenente l’elenco dei propri prodotti. In una fase più avanzata, può essere determinante studiare e tracciare (con adeguati strumenti informatici) il comportamento dei clienti attraverso la navigazione del sito. Ancora una volta, raccolta di informazioni e analisi.

Questo breviario non ha certamente alcuna pretesa di esaustività, ma può fornire spunti utili alle PMI per l’approccio all’internazionalizzazione. Con un suggerimento conclusivo: in epoche di grande incertezza e scarsità di risorse come questa, è importante tornare a fare affidamento su sé stessi e sulle proprie capacità. E ricordarsi che, oltre i nostri confini, i nostri prodotti sono percepiti – a ragione – come il meglio che il mercato possa offrire.


Andrea d'Amico

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