È di pochi giorni fa la notizia del netto rallentamento dell’inflazione americana per il mese di giugno. Invero l’indice dei prezzi al consumo (IPC) è passato dal 4% di maggio al 3% di giugno, superando le aspettative degli analisti che prevedevano, invece 3.1%, e solo un pizzico più alto del 2.9% che è stato il livello medio nei due decenni precedenti la crisi finanziari generata dalla pandemia e proseguita con la guerra in Ucraina.
Siamo dunque ben lontani dal 9.1% dello scorso giugno, che ha rappresentato il picco più alto dal 1981. Un segno evidente che la politica monetaria restrittiva della Federal Reserve sta funzionando. È altresì indubbio che il Chairman della Fed, Jerome Powell, abbia tenuto fede alle sue parole. A giugno scorso la Fed varò un piano di rialzo dei tassi d’interesse che è proseguito, con ben 10 rialzi consecutivi e che, a suo dire, sarebbe continuato fin tanto che l’inflazione non si fosse stabilizzata. C’è dunque da chiedersi se questo momento sia arrivato. Ci credono poco gli economisti e analisti americani convinti che, nonostante l’inflazione sia molto rallentata, essa sia ancora troppo alta rispetto al target della Fed del 2%. Per tale motivo scommettono in un prossimo rialzo dello 0.25%, già al prossimo meeting che si terrà la settimana prossima.
Questo porterebbe il tasso d’interesse al 5.25% - 5.50%. Tra le poche voci contrarie certamente la più ragguardevole è quella dell’economista Christopher Pissarides, premio Nobel per l’economia del 2010. Egli, in una recente intervista al canale economico CNBC, ha dichiarato di non vedere ancora le ragioni per un ulteriore rialzo dei tassi stante “il tasso d’inflazione in diminuzione e il mercato del lavoro meno contratto”. Ritiene, semmai, che in questo momento l’unica cosa da fare sia mantenere la calma e avere pazienza per vedere, a pieno, gli effetti dell’inflazione sull’economia a stelle e strisce. Pissarides ha inoltre affermato che la strada per l’Europa invece, stante il diverso tasso d’inflazione, sia ancora in salita. Eccetto che per l’Italia, con un’inflazione programmata al 5% stando alle stime del Senato della Repubblica, Ufficio Parlamentare Bilancio, note al DEF del 2022.
Chi certamente ha capitalizzato la notizia è il presidente Biden, le cui prospettive di rielezione dipendono dall’andamento dell’economia americana e che, da Vilnius, dove si svolgeva il vertice Nato, si è immediatamente preso i meriti della riduzione dell’inflazione dichiarando: “Good jobs and lower costs: That’s Bidenomics in action”, ossia “aumento dell’occupazione e costi inferiori: questo è la Bidenomics in azione”. Una rivincita per il presidente democratico che nell’ultimo anno è stato costantemente sotto attacco dei repubblicani, secondo cui la responsabilità di un’inflazione così alta abbia come unico responsabile l’inquilino della Casa Bianca e la sua politica green. Sebbene siano indubitabili i progressi ottenuti dalla politica monetaria restrittiva adottata dalla Fed, un dato desta qualche preoccupazione, ovvero il prezzo del carrello della spesa in continua crescita. Un’analisi del dipartimento di statistica del ministero del lavoro ha evidenziato, infatti, come il prezzo dei generi alimentati è aumentato del 5,8% rispetto ad un anno fa. Nello specifico ciò ha determinato un rincaro sia dei pasti da asporto (8%) che dei ristoranti (7,7%). Il costante aumento dei beni di prima necessità ha determinato un aumento dell’insicurezza alimentare (food insecurity) che, a giugno, ha toccato il 17%, il picco più elevato da marzo 2022.
Numerosi sono i fattori che concorrono all’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Dall'inflazione, la cui frenata può dare un respiro alle famiglie americane, al costo del lavoro, alla catena di approvvigionamento e, infine, alla guerra in Ucraina. La recente notizia del mancato rinnovo degli accordi sul grano da parte della Russia potrebbe vanificare, in parte, sebbene sia troppo presto per valutarlo, i progressi ottenuti da un allentamento della pressione inflazionistica ed innescare una pericolosa contrazione della domanda.
E’ però strano come da un lato si lodino le azioni della Fed, dall’altro - nell’economia reale - si assista invece ad un pesante contraccolpo, visto l’incremento sensibile del CPI index.
Per poter effettuare una corretta disamina della situazione è bene quindi fare alcune precisazioni.
In primo luogo bisognerebbe ricordare che il tasso di interesse nominale (il costo di un finanziamento) è oggi prossimo al 5.25% - 5.50%; il predetto tasso è però sempre funzione del tasso di interesse reale (il potere d’acquisto del denaro a prestito) ex ante cui sommare il tasso di inflazione atteso, per cui se aumentasse l’inflazione attesa (le aspettative sull’inflazione) diminuirebbe l’opportunità di investimenti e la propensione al consumo. In tal senso, all’aumentare delle aspettative sull’inflazione attesa aumenterebbe di conseguenza anche il tasso di interesse nominale.
Secondariamente, con queste prerogative del monetarismo è consequenziale attendersi l’effetto della velocità di circolazione della moneta: se ad esempio il tasso nominale d'interesse fosse positivo, allora la velocità degli scambi e della moneta dipenderebbe solo dal prezzo dei beni e dei servizi. In breve, tutto dipenderebbe dagli scambi commerciali internazionali, dove oggi si alimentano le maggiori incertezze economiche. Tanto che sul punto si può esaustivamente ricordare come gli scambi mondiali nel 2022 siano stati previsti in modesta crescita e, precisamente, soltanto del +1% nel 2023 (Fonte: WTO Goods Trade Barometer, september 2022).
Queste premesse conducono logicamente ad una prima deduzione: che lo stato attuale delle economie occidentali risulti essere ambiguo, sospetto, più che incerto nel senso di confuso, se non altro perché richiederebbe agli attori di mercato di assumere una posizione risk-neutral, già per sé innaturale per investitori, risparmiatori e consumatori, come noto contrattualmente vincolati all’utilità più che al prezzo. Sulla scorta di simili presupposti logici, è chiaro come analizzare le attuali dinamiche inflazionistiche richieda anzitutto dover rilevare la corretta proporzione tra la ricchezza investita (market capitalization) ed il valore di mercato dei beni e servizi (prodotto interno lordo - PIL), sempre nella consapevolezza che, in realtà, sono molte e complementari le cause che possono ora avere un effetto benefico, ora un effetto negativo sul sistema in termini di inflazione attesa. Secondo questa prospettiva il meccanismo degli incentivi teorizzato da Richard Thaler, Premio Nobel per l'economia 2017, (c.d. nudging) avrebbe una grande importanza empirica, in quanto proporrebbe - oltre alla negoziazione politica - uno strumento d’interpretazione del sistema moderno assai idoneo, posto che in generale il policy maker ha come primario obiettivo l’individuazione del più opportuno tasso di rischio risk free. Per deduzione, è evidente come il passaggio da posizioni di rischio neutrale a posizioni di rischio puro attenga non certo al primo approccio, politico, ma alla determinazione del secondo, economico, ovvero alla nuova redditività richiesta sul mercato dei capitali affinché il principio del valore finanziario non leda l'interesse pubblico della stabilità. Di certo, questo è l’effetto dirompente dell’inflazione e delle strategie economiche delle banche centrali in atto: determinare nuove security market lines e, verosimilmente, una nuova teoria del capitale. Conforme a tutti o, se non altro, idonea a consentire l'espressione di forze politiche conformemente con l'affermarsi di nuove aree di scambio, di nuovi accordi monetari.
Non si dimentichi infatti che un obiettivo monetario di primo ordine dovrebbe essere proprio quello di costruire una situazione idonea a favorire la riduzione del trade off moneta/investimenti ad un livello tale per cui il massimo rendimento atteso non possa consentire alcuna successiva variazione dei prezzi in termini di inflazione (c.d. asset price inflation) e che tale obiettivo stia oggi incrementando l'appeal di stati-Nazione posizionatisi ai margini degli storici accordi internazionali.
E, forse, sia la Fed che la Bce avrebbero di concerto trovato per primi un'area di negoziazione comune - in termini di nudging - adottando simili strategie monetarie, tali da consentire di attrarre il baricentro del costo del denaro ad un livello prossimo al 5%...
Tuttavia, nella sua variabilità e con le proprie concause, è anche noto che l’inflazione dei prezzi, quale shock di sistema tanto negli USA quanto nell'UE, si manifesterebbe sempre successivamente alla crescita improvvisa della domanda, dal momento che non riuscirebbe ad essere interamente soddisfatta dall'offerta.
Se infatti è vero che l’inflazione rende meno costoso ripagare il debito pubblico (il cui ammontare è espresso notoriamente in termini nominali e non reali), nei mercati dei capitali l’inflazione consentirebbe persino di spostare la ricchezza dai privati allo Stato (al pari di una tassa), a causa della riduzione del potere d’acquisto (della ricchezza reale) dei possessori di moneta.
Una prima conclusione sembrerebbe essere allora la seguente: che sia la natura redistributiva dell’inflazione a sfuggirci, perché ogni fenomeno inflattivo è sempre ambivalente. Ciò che è vero nei mercati finanziari, è smentito - o può esserlo – nell’economia reale, e viceversa.
Una seconda convinzione risiederebbe invece nell’effetto comune atteso tanto nel contesto finanziario quanto in quello dell'economia reale, in quanto aumentando nei limiti consentiti il tasso d’interesse i prestiti elargiti diventerebbero man mano più costosi, frenando la propensione ad indebitarsi e favorendo così il risparmio individuale, con conseguente riduzione del denaro in circolazione che, a sua volta, comporta di certo la riduzione della domanda di beni e genera un inevitabile calo dei prezzi, dunque il contenimento dell’inflazione.
Per quanti elogiano allora le politiche efficaci anti-inflazionistiche in atto, è bene ricordare loro come queste condizioni siano un vantaggio per i ceti a reddito fisso, considerato che gli imprenditori avrebbero maggior propensione al rischio ed alla speculazione. Ma, sempre per maturare un giudizio neutrale, parrebbe sfuggire agli ottimisti il vero problema, quello della piena occupazione. Paul Samuelson e Robert Solow, illustri economisti statunitensi, avevano già sostenuto che, in considerazione dell’inflazione, nel lungo periodo i contratti tra i lavoratori ed i datori di lavoro tenderebbero a far sì che l’aumento dei salari sia prossimo all’inflazione attesa, con ciò neutralizzando gli effetti reali. Un simile comportamento causerebbe nel contempo un ulteriore effetto: la disoccupazione tenderebbe invero ad assestarsi sul livello precedente, con tassi d’inflazione e salari nominali più elevati, sicché nel lungo periodo non vi sarebbe alcun compromesso (trade-off) tra inflazione e disoccupazione. Da cui deriverebbe un evidente dilemma: quello della corretta o auspicabile relazione tra inflazione e surplus che la politica economia monetaria dovrebbe perseguire.
Dunque esisterebbe in realtà un problema più profondo, redistributivo per precisione. Quando infatti i profitti maggiori spingono verso l’alto l’inflazione (c.d. profit push inflation theory), gli stessi contribuiranno anche ad incrementare la redistribuzione del surplus sui salari, avuto riguardo al mercato oligopolistico generato dai rapporti finanziari tra le imprese e le banche che, in condizioni di equilibrio tra domanda ed offerta, si vedono costrette ad aumentare il prezzo dei loro rispettivi assets (merci e denaro) al fine di scontare l’incremento nominale del costo del lavoro e dei capitali, nel tentativo di rincorrere sempre più i propri guadagni personali.
Insomma, per quanti fossero inclini all’ottimismo, bisognerebbe ricordare che l’inflazione è parte del rendimento d’impresa e, per questo, può essere equiparata ad una tassa sulla moneta detenuta. Stando a questa impostazione, non sarebbe però lecito economicamente attribuire alle banche centrali un simile ruolo politico, contrario alla neutralità loro imposta. Ne perderebbe la politica, con tutte le funzioni proprie, e la democrazia in generale, capace di assicurare un corretto livello di conflitto affinché nessuno possa mai assicurarsi rendite dirigenziali tra le istituzioni.
Per coloro più prudenti, se non pessimisti, si dovrebbe rammentare loro che il costo sociale dell’inflazione, capace di ridurre il benessere ed il potere d'acquisto dei salari, richiederà pur sempre che i prezzi (compresi i salari) siano prima o poi lasciati liberi di aggiustarsi in autarchia, onde scongiurare i danni dello statalismo ordoliberale.
Tra l'altro, come ricorda l’aneddoto dell’asino di Buridano, “voluntas est intellectus et intellectus est voluntas”; un aneddoto che di certo dirimerebbe ogni dubbio sulle azioni messe in campo dalla Fed, rette dalla consapevolezza nel positivismo capitalista e del tutto estranee al dominio dell’incertezza.
Francesco Rizzo Marullo
Angelo Mucci
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