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  • Immagine del redattoreItalia Atlantica

Realismo senza scampo

A luglio, salvo colpi di scena, il neogoverno diarchico Netanyahu-Gantz, darà il via libera all’annessione di una parte degli insediamenti in Giudea e Samaria (Cisgiordania, West Bank), con il benestare indispensabile degli Usa.

Già si sta diffondendo il mantra anti-sionista che una simile decisione assesterà un “colpo decisivo” al “processo di pace” e che si tratterebbe di una decisione in violazione del “diritto internazionale”.

Si tratta di puri flatus vocis. 

Il cosiddetto processo di pace è in stallo dal 1993, da quando vennero stilati gli Accordi di Oslo, che regalarono a Israele due intifade, la più sanguinosa delle quali, la seconda, durò dal 2000 al 2005, un anno oltre la morte del suo ispiratore, Yasser Arafat.

Nel frattempo, a Camp David, nel  luglio del 2000, sotto l’egida di Bill Clinton, Ehud Barak offrì ad Arafat il venire in essere di uno Stato palestinese demilitarizzato che avrebbe incluso il grosso della Giudea e Samaria, la Striscia di Gaza e avrebbe avuto come capitale Gerusalemme Est.

Il 90, 91 per cento dei territori conquistati da Israele nel 1967 dopo la Guerra dei sei giorni, e che il Mandato Britannico per la Palestina del 1922 aveva assegnato agli ebrei, sarebbe passato sotto sovranità palestinese. Gerusalemme, che Yitzhak Rabin, uno degli artefici degli Accordi di Oslo, aveva ribadito sarebbe rimasta unificata sotto tutela israeliana, sarebbe stata invece divisa e gli arabi palestinesi avrebbero anche avuto il controllo su una parte della Città Vecchia. Da parte di Barak c’era anche la disponibilità di concedere piena compensazione ai rifugiati palestinesi per la perdita delle loro proprietà a causa della guerra del 1948-1949 e la disponibilità ad assorbire una parte dei rifugiati più anziani. Insomma un pacco regalo munifico. L’allora inviato statunitense per il Medio Oriente, Dennis Ross, nelle sue memorie ricorda di come Bill Clinton, a un certo punto, perse la calma e urlò ad Arafat, “Sei stato qui quattordici giorni e hai detto di no a tutto”.

Il 26 luglio del 2000 il summit si sciolse senza un nulla di fatto. Otto anni dopo, fu un altro Ehud, Olmert, primo ministro israeliano che offrì a Abu Mazen il rinnovo della proposta di Barak mostrando al presidente dell’Autorità Palestinese una mappa con i confini dello Stato che avrebbe ricevuto. Attese che Abu Mazen desse un segno di assenso che non arrivò mai.

Da allora a oggi sono passati altri dieci anni, durante i quali, mai l’Autorità Palestinese ha fatto passi avanti per incontrare Benjamin Netanyahu e potere giungere a un risultato positivo, adducendo pretesti per evitare di sedersi a un tavolo negoziale, come quello di sostenere che era l’incremento degli insediamenti in Giudea e Samaria il problema principale alla ripresa dei negoziati. Questa fola, introiettata dall’amministrazione Obama costrinse nel 2009 Benjamin Netanyahu a congelare per dieci mesi i permessi di costruzione per i nuovi residenti e sulle nuove costruzioni residenziali negli insediamenti. Risultato? Non accadde nulla. D’altronde nulla poteva accadere. Abbas aveva negoziato con sei primi ministri israeliani, Rabin, Peres, Netanyahu al suo primo mandato, Barak, Sharon e Olmert senza la precondizione richiesta successivamente a Netanyahu.

Il “processo di pace” nulla altro è che una pura fiction che l’amministrazione Trump, nel piano proposto ha svelato chiaramente, incardinandolo prima su l’assunto che la presenza ebraica nei territori della Giudea e Samaria, in base al Mandato Britannico per la Palestina del 1922, reso possibile dalla Conferenza di San Remo del 1920, è perfettamente legittima per il diritto internazionale e, in seconda battuta, che non può avviarsi alcuna reale pacificazione se non viene riconosciuta di fatto la legittimità non solo geografica ma esistenziale di Israele.

Perchè il punto principale, a monte di ogni altra considerazione, è solo ed unicamente questo, tutto il resto, per dirla col poeta, discende per li rami, ovvero è il rifiuto arabo e islamico nei riguardi dell’esistenza di uno Stato ebraico su un suolo considerato in perenne dotazione all’Islam. Era così negli anni Venti è così ancora oggi. L’unica differenza rilevante è, che da allora a oggi, gli arabi e i musulmani in generale hanno dovuto constatare che distruggere Israele non è una impresa facile.

La futura annessione dei legittimi insediamenti ebraici in una regione del paese che è il cuore stesso della storia ebraica ed emblema di quel legame mai venuto meno con la Palestina da parte del popolo ebraico, riconosciuto a San Remo nel 1920, è solo ed unicamente una affermazione di realismo.

Nessuna pace potrà mai esserci se chi, non avendola mai voluta, non si renderà conto che Israele ha pieno diritto di esistere ed è definitivamente parte dell’assetto mediorientale. Solo allora si potrà proseguire. Tutto ciò era ben noto a Vladmir Jabotinsky nel 1923, quando, nel suo più celebre articolo, Il Muro di ferro, scriveva con la consueta lucidità, “La mia intenzione non è quella di affermare che un qualsiasi accordo con gli arabi palestinesi sia assolutamente fuori questione. Finchè sussiste nello spirito degli arabi, la benchè minima scintilla di speranza di potersi un giorno disfare di noi, nessuna buona parola, nessuna promessa attraente indurrà gli arabi a rinunciare a questo spirito.”

La scintilla di speranza di potersi un giorno disfare di Israele è ciò che da allora in poi ha alimentato costantemente il tentativo di distruggerlo e che solo il muro di ferro della realtà ha potuto e può respingere.


Niram Ferretti

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