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Un esempio di libera iniziativa economica


Il libero mercato è un mercato in cui i prezzi di beni e servizi si formano grazie alla mutua interazione di venditori e acquirenti, ovvero produttori e consumatori.

Per definizione, nel libero mercato venditori e acquirenti non si forzano o ingannano a vicenda, né sono forzati da una terza parte in quanto gli effetti aggregati delle decisioni dei singoli sono descritti sistematicamente dalle leggi della domanda e dell'offerta.

Ciò che attiene alla dimensione economica dei produttori non sempre però collima con la razionalità dei consumatori. Ad esempio, spesso i produttori sono vincolati dalle leggi economiche sulla formazione dei costi; si pensi alla funzione di utilità di Cobb Douglas circa la relazione tra capitale fisico e lavoro, la quale evidenzia l’importanza della produttività dei fattori, della tecnologia e dell’elasticità del capitale e del lavoro (quel rapporto tra variazione percentuale del lavoro e variazione percentuale dell’input). Infatti, dato che le funzioni di utilità rappresentano le preferenze ordinali e non hanno unità naturali a differenza delle funzioni di produzione, una qualsiasi trasformazione monotona di una funzione di utilità dal lato della produzione (l’offerta) rappresenterebbe conseguentemente le stesse preferenze dei consumatori (la domanda). Tuttavia, a differenza di una funzione di produzione di Cobb-Douglas dove la somma degli esponenti (l’elasticità del capitale e del lavoro) determina il grado delle economie di scala, la loro somma ben potrebbe anche essere normalizzata a uno per una generica funzione di utilità, così da poter affermare che, più in generale, le stesse preferenze generano una stessa domanda.

I consumatori, d’altro canto, massimizzano l’utilità, soggetti al vincolo di bilancio per cui il costo dei beni risulterà inferiore alla sua ricchezza; donde deriva l’effetto negativo dell’inflazione sui consumi.

E’ così chiaro come un qualsiasi livello di efficienza è conseguibile quando la frontiera di produzione-possibilità (PPF) giunge ad un limite di possibilità di produzione secondo un certo costo opportunità.

La questione del costo opportunità correlato al vincolo della possibilità di offrire un servizio è divenuta evidente nell’ambito dell’andamento della redditività dei negozi e della attività commerciali durante la crisi Covid-19 e, poi, durante la susseguente crisi ucraina che ha coinvolto le economie domestiche e mondiali.

Ebbene, proprio in un contesto di recessione mondiale, per quanto risulteranno in futuro idonee le manovre delle banche centrali e delle politiche nazionali, in primis è andata in crisi l’efficienza produttiva delle attività commerciali nelle città, soprattutto a causa di una manifestatamente errata efficienza allocativa del comparto alimentare, sui generis proprio nel settore della piccola imprenditoria.

E questo per più motivi strutturali. Muovendo da una analisi per indici statistici, si può constatare che l’indice SDG https://www.sdgindex.org/ presenta l’Italia come uno dei Paese con maggiore necessità di interventi diretti alla responsabilizzazione dei consumi. Questo ritardo di sostenibilità sarebbe anche dovuto all’enorme diffusione di attività commerciali urbane che avrebbero innescano un comportamento devolutivo del cittadino, causando maggiori sprechi alimentari e, in termini di politica economica cittadina, una falsa concorrenza tra gli operatori dislocati nelle aree urbane, perlopiù connessa al reddito reale e all’efficacia delle politiche attive. Queste ultime cause congiunturali hanno mutato il tasso marginale di trasformazione (pendenza della frontiera/costo opportunità dei beni) ossia il tasso marginale di sostituzione dei consumatori: si è in altro modo assistito alla rinuncia a certi beni dei consumatori verso talaltri a parità di utilità.

Hanno allora vinto l’e-commerce, i centri commerciali ed i super ovvero iper mercati; avrebbero perso gli alimentari con meno di 5 dipendenti, i quali avrebbero azzerato la loro redditività per far fronte alle esposizioni finanziarie tipiche del proprio tasso di rotazione del capitale investito, a patto di sopravvivere in un contesto arduo.

Di fatto, è certo che nessun commerciante alimentare potrebbe mai adoperarsi per “seguire” la domanda ed i consumi mutevoli, come le leggi economiche vorrebbero; semmai sarebbero invece costretti ad agire in funzione della sola salvaguardia dei prezzi e, magari, della qualità dei prodotti venduti.

Questo è sicuramente un meccanismo distorsivo dell’economia di settore sia per quanto riguarda le implicite determinanti macroeconomiche che rendono il commerciante vittima dello status dell’economia nazionale e delle vicende internazionali, sia per quanto attiene all’impossibilità di poter investire risorse nel settore di appartenenza, non potendo l’attore economico potenziare in alcun modo l’avviamento commerciale né rivalutarlo. Una distorsione, questa, peraltro ben nota all’attuale Governo considerato che nella Legge di Bilancio 2023 è stato previsto un intervento sui coefficienti di ammortamento elevati al 6% (cfr. art. 1 comma 65 Legge 197/2022).

Una diseconomia che in realtà ha origini remote, ovviamente manifestatasi durante la crisi pandemica, periodo nel quale il settore alimentare ha registrato un - 6% (dato tendenziale); mentre nella fase pandemica più acuta, a fronte della stabilità dei consumi alimentari tra il 2022 ed il 2021, si è assistito nel contempo ad un incremento in valore del + 0.5% (congiunturale) e ad un contrapposto marcato calo dei volumi del -1.4% (congiunturale)[1]. Quindi si è assistito a minori scambi di merci in città ed a prezzi maggiori, ceteris paribus con i consumi: un’evidente deviazione della domanda verso canali commerciali alternativi, distanti, meno onerosi ma più precari nella tradizione e nella cultura italiana.

Sul punto, la manovra del Governo sarebbe quindi il risultato di una scelta ragionata, di una consapevolezza del problema che attiene ai margini ed alla redditività, tanto da aver richiesto uno specifico intervento fiscale su un preciso valore del 6% attribuibile alla perdita di ricavi subìta (tralasciando gli effetti sui margini commerciali connessi all’inflazione del 10%).

E’ evidente anche che in una dimensione di crisi della funzione di “stabilizzazione macroeconomica” della spesa pubblica lo Stato dovrebbe intervenire non solo con sussidi ma soprattutto correggendo alcune divergenze tra efficienze allocative e redistributive. Se il compito macroeconomico della politica fiscale è concorrere - assieme alla politica monetaria - alla stabilizzazione del ciclo economico attorno al Pil potenziale (il livello massimo di attività economica che un’economia può raggiungere con il pieno utilizzo di capitale e lavoro e senza generare pressioni inflazionistiche), allora in fasi avverse del ciclo economico (crescita inferiore a quella potenziale) o addirittura in fasi recessive (crescita negativa) l’utilizzo della politica fiscale sarebbe ammesso, per evitare sotto-occupazione, come sarebbero altrettanto ammessi i correttivi deflatori del Pil per certi settori a rischio (onde adeguare il reddito nominale sul reddito reale), allo scopo di trasformare, quale effetto indiretto, il reddito di certi operatori economici in ricchezza effettiva trasferibile.

In una prospettiva aziendalistica e con una precisa attenzione al settore dei commerci alimentari una valida strategia di lungo periodo, almeno in termini di concorrenza, vorrebbe l’introduzione di un ‹‹indice di sostenibilità commerciale››, idoneo a tradurre reddito in ricchezza attraverso la concessione di licenze urbane in rapporto alla grandezza dei locali in metri quadri commerciali con il numero, la densità, di abitanti. Licenze mediante le quali consentire di correlare la redditività con un diritto liberamente trasferibile, seppur numericamente programmabile dalle Regioni o dalle Province, al solo fine di agevolare il perseguimento dell’efficienza allocativa e produttiva dei servizi cittadini, nel pieno rispetto delle regole concorrenziali in materia di libera iniziativa economica e di capacità contributiva.

In sintesi: rendere resiliente il settore dei commerci alimentari oltre che profittevole.

Una simile regolamentazione consentirebbe altresì di ottenere ulteriori benefici sistemici; ad esempio, permetterebbe una mappatura del sistema alimentare di filiera, consentirebbe la possibilità di introdurre le c.d. filiere di solidarietà urbane come le food banks o la distribuzione al dettaglio di tipo sociale, fino a consentire di poter incrementare la filiera della multifunzionalità, con tutti i benefici conseguibili per effetto sul sistema dei servizi alimentari pubblici (mense, scuole, aiuti sociali, etc …).

Verrebbe così preservata l’attuale redditività delle attività commerciali alimentari e migliorata la reale coesistenza tra l’offerta di servizi commerciali e le potenzialità demografiche dei centri abitati; di certo si potrebbe attendere persino un miglioramento della qualità e della quantità gestita dalle filiere alimentari, in assenza di sprechi e di esternalità negative.

Angelo Mucci, economista.

Pietro Infriccioli, commerciante.

[1] DATI ISTAT A MARZO 2022 PUBBLICATI IL 6 MAGGIO 2022. https://www.istat.it/it/files//2022/05/CS_Commercio_al_dettaglio_0322.pdf.

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