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Con il sistema S-400 russo, la Turchia si rende incompatibile con la Nato


Nel mondo che cambia, cambiano anche le vecchie e consolidate certezze geopolitiche. Il consolidarsi del potere di Erdoğan in Turchia, parallelo a una progressiva ri-islamizzazione del paese, nel 70° anniversario dell’Alleanza Atlantica, rendono non più rinviabile una riflessione sul ruolo della Turchia nella NATO.

La Turchia aveva aderito alla NATO nel 1952. Ankara era allora una repubblica laica e Kemalista. Situata al crocevia di Russia, Europa, Caucaso e Medio Oriente, durante la Guerra Fredda costituiva il valore aggiunto dell’Alleanza Atlantica.

Il secondo più grande dispositivo militare dell’Alleanza aveva tre chiare funzioni: contenere la marina sovietica nel Mar Nero; confrontare le forze del Patto di Varsavia lungo il fronte meridionale; e poi, dopo la caduta dello Scià di Persia, fare diga contro l’Iran sciita e rivoluzionario.

Ma dal 2002 la Turchia ha intrapreso un processo di mutazione genetica che ne modificato sostanzialmente gli assetti interni e ha rivoluzionato la sua posizione internazionale. Il primo elemento della mutazione si è palesato con il disegno "neo-ottomano" di Ahmet Davutoglu, nominato Ministro degli Esteri nel 2009. Da allora, la politica di buon vicinato con l’Iran, le alleanze tattiche con i Paesi arabi, il sostegno ai Fratelli Musulmani, la risposta distratta all’ascesa dell’Isis, hanno chiaramente messo in luce la problematicità dell’alleanza occidentale con la Turchia. Problematicità che si è ulteriormente evidenziata con il ruolo di Ankara in Siria e l’intesa con il Qatar e i Fratelli Musulmani, quest’ultima già resosi esplicita nel 2012 in virtù della convergenza ideologica con Morsi in Egitto e con Hamas, costola palestinese della Fratellanza, a Gaza. Sotto questo aspetto la Turchia ha voluto declinarsi insieme all’Iran come una delle principali potenze islamiche di sostegno alla causa palestinese e in aperta opposizione a Israele.

Sotto la leadership politica di Erdoğan in Turchia le relazioni con la Russia sono divenute prioritarie, i legami con gli Stati Uniti hanno raggiunto il minimo storico e i rapporti con l'Europa rimangono in crisi.

Nel recente passato, il presidente Turgut Ozal sostenne l’Operazione Desert Storm. Aprì la base aerea di Incirlik ai soldati americani, spostò 100.000 truppe turche dal confine bulgaro al confine iracheno, e le schierò in Iraq insieme agli americani. E’ ipotizzabile, che all’epoca abbia anche chiesto all'allora presidente degli Stati Uniti George H.W. Bush il sostegno degli Stati Uniti per l’annessione di Mosul e Kirkuk, portando a compimento il sogno espansionistico di Ataturk. Invece, la zona di interdizione al volo imposta dagli Stati Uniti ha trasformato il nord dell'Iraq in uno Stato de facto curdo. Nel sud-est dell’Anatolia la regione divenne un terreno di sosta per gli attacchi del PKK.

Questa esperienza convinse molti in Turchia che Washington favoriva un Kurdistan indipendente alle porta di casa, un sentimento così pervasivo che, dieci anni dopo, esso agì come deterrente psicologico sul parlamento turco, portandolo a deliberare contro l’ingresso delle truppe americane nel paese durante la guerra in Iraq.

Oggi, la Turchia è sempre più esplicitamente allineata con i nemici della UE e della NATO. Quando i Paesi del Golfo, su spinta americana, hanno isolato il Qatar (per il suo appoggio al terrorismo islamico e le sue relazioni pericolose con l’Iran), la Turchia, assieme all’Iran, ha subito fornito il suo appoggio all’emiro Al Thani confermando ancora una volta, quanto è ambiguo il ruolo turco nella lotta al terrorismo.

L’interesse nazionale turco è ormai di fatto incompatibile con il disegno strategico americano e pone appunto la questione sull’utilità della permanenza di Ankara nella NATO. Ciò è evidenziato dai due aspetti più controversi della politica estera della Turchia: la sua presenza militare in Siria e l'accordo con i russi per gli S-400.

Ankara è preoccupata per la crescente forza dell'affiliata siriana del PKK, l’Unità di protezione del popolo (YPG), e le implicazioni di un Kurdistan autonomo nella Siria settentrionale. L’alleanza di Washington con il PKK in Siria, e il via libera europeo alla sua operatività pluridecennale in Europa evidenzia una inconciliabilità di fondo tra USA, Europa e Turchia.

Una dinamica di contrasto è palese anche nell'affare S-400. Robert Palladino, portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha dichiarato che l'acquisto dell'S-400 “porterà ad una rivalutazione della partecipazione della Turchia al programma F-35 e rischierà che vi siano altri potenziali futuri trasferimenti di armi in Turchia, oltre a portare a eventuali sanzioni ai sensi del Countering America's Adversaries Through Sanctions Act [CAATSA]”.

Il Gen. Curtis Scaparotti, che supervisiona il Comando Europeo degli Stati Uniti, ha aggiunto che il sistema di difesa aerea S-400 rappresenta una minaccia per i sistemi della NATO. Le preoccupazioni di Washington riguardo agli S-400 sono manifeste, e sono anche relative all'acquisto delle attrezzature russe da parte di paesi terzi, alla svalutazione del programma F-35 e a un impatto negativo sui sistemi collettivi della NATO. Non sono solo le singole armi, ma si tratta di un sistema integrato, che necessariamente avvicinerà il Paese anatolico alla Russia, con una difesa aerea condivisa.

Come ha evidenziato Daniel Pipes in un articolo apparso sul Washington Times il 17 ottobre del 2017

“La NATO deve fare una scelta. Può, sperando che Erdoğan non sia altro che un episodio assai fastidioso e la Turchia tornerà in seno all’Occidente, proseguire con la politica attuale, oppure ritenere che l'utilità della NATO sia troppo importante per sacrificarsi a questa ipotesi e intraprendere passi risoluti al fine di congelare la Repubblica della Turchia dalle attività della NATO fino a quando non si comporterà ancora come un alleato”.

La domanda è, saprà e vorrà la NATO porre questi passi risoluti nei confronto dell’alleato turco o permarrà la situazione attuale, all’insegna dell’ambiguità?


Niram Ferretti

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