Nel marzo del 2015, poco prima delle elezioni che lo avrebbero riconfermato premier, Benjamin Netanyahu si recò negli Stati Uniti per parlare al Congresso nel tentativo di influenzare la decisione dei legislatori in vista dell’accordo sul nucleare iraniano fortemente voluto dall’Amministrazione Obama. Disse che per quanto importante fosse sconfiggere l’ISIS il pericolo maggiore era quello di un Iran dotato di bombe atomiche. “Il peggiore connubio possibile è quello tra il radicalismo islamico e gli ordigni nucleari“, dichiarò.
Al centro della preoccupazione di Netanyahu c’era, all’epoca, il JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano che in quei mesi l’Amministrazione Obama stava per concludere, come poi avvenne nel luglio del 2015 nonostante il massiccio interventismo diplomatico israeliano finalizzato a che esso non andasse in porto. Si è dovuto attendere l’uscita di scena di Barack Obama e l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump perché la situazione mutasse radicalmente in favore di Israele. La decisione di Trump di terminare un accordo considerato disastroso, ha certamente permesso a Israele di tirare un sospiro di sollievo e di assestare al regime teocratico di Teheran un forte colpo, ma ha lasciato intatto il pericolo di un paese dichiaratamente ostile.
Sul radicalismo sciita iraniano non vi possono essere i dubbi. Fondato su una visione millenaristica e rivoluzionaria in ossequio ai dettami dell’ayatollah Khomeini, l’Iran persegue da anni una politica estera espansionista di rifondazione imperiale (Libano, Siria, Iraq, Yemen) e virulentemente anti-israeliana. Non è un mistero per nessuno che per il regime di Teheran, lo Stato ebraico sia un “tumore” da estirpare, una emanazione satanica seconda solo alla più grande, quella americana.
L’attuale guida suprema, l’ayatollah Khamenei, non ha mai perso occasione di ribadirlo. Nel 2014 definiva Israele “un cane sporco e rabbioso” aggiungendo che gli israeliani non dovrebbero essere qualificati come esseri umani. La deumanizzazione del nemico, e nel caso specifico dell’ebreo, (qui nella fattispecie israeliana), era intrinseca alla politica del Terzo Reich e alla sua propaganda, di cui, dal 1979, l’Iran ha iniziato a usare diligentemente tutto l’armamentario antisemita.
Come ricorda Matthias Küntzel:
Nel discorso islamico contemporaneo, come nella propaganda islamo-nazionalista, gli ebrei, diventati i “sionisti”, non hanno smesso di essere demonizzati essendo etichettati come “criminali” (espressione forte apprezzata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini) e come “cospiratori” (denominazione contenuta nello Statuto di Hamas e nei discorsi pronunciati dai leader di al-Qaeda), o bestializzati paragonandoli alle “scimmie” e ai “maiali”, mentre Israele è stato stigmatizzato usando metafore patologizzanti come “cancro”, “tumore canceroso”, “colera”, “microbo” etc.[1]
E’ sempre Khamenei a sottolineare l’aspetto millenaristico della rivoluzione islamica del ’79, considerandolo “Il punto di svolta nella storia moderna del mondo”, latrice di un “messaggio di salvezza per l’umanità“. Questa salvezza implica inevitabilmente che vengano eliminati gli ostacoli principali che si frappongono al suo compiuto manifestarsi; Israele (il piccolo Satana mediorientale) e gli USA (il grande Satana mondiale). Eliminare gli USA è, chiaramente, un obbiettivo molto al di là delle concrete possibilità iraniane, colpire Israele è più fattibile, anche se i rischi per il regime sarebbero estremamente alti.
Tra gli scopi della sua presenza in Siria, l’Iran ha anche quello di avvicinarsi a Israele costituendo un fronte militare a ridosso delle alture del Golan, motivo per il quale il territorio siriano è stato continuamente bersaglio di incursioni aeree israeliane volte a depotenziare drasticamente le risorse iraniane presenti sul terreno.
La partita dell’Iran contro Israele si gioca anche a Gaza, dove l’Iran finanzia con circa 100 milioni di dollari l’anno Hamas e quella che è la sua diretta propaggine, il partito della Jihad islamica, il quale, diversamente da Hamas, è totalmente dipendente da Teheran.
Attraverso le sue dislocazioni mediorientali, in Libano, a Gaza, in Siria, in Iraq e in Yemen, si manifesta la dottrina iraniana della guerra asimmetrica, ossatura strategica della sua politica estera tesa a una presenza regionale tentacolare e multiforme.
Nonostante ciò l’’Iran è oggi, di fatto, a quarant’anni dalla rivoluzione, un regime più debole malgrado il vasto dispiegamento militare e le enormi risorse impiegate a mantenerlo, la propaganda roboante, la spacconeria esibita. La sua riqualificazione sull’asse del male messa in atto dall’Amministrazione Trump, seguito dal ripristino progressivo e massiccio delle sanzioni economiche americane dopo la decisione di Donald Trump di fare uscire gli USA dall’accordo sul nucleare, l’efficace politica di contenimento israeliana in Siria, il profondo malcontento della popolazione, la forte svalutazione del rial, insieme alla convergenza sunnita intorno agli USA e a Israele in chiave anti-sciita, sono tutti fattori oggettivamente logoranti, anche se, al momento, non ancora sufficienti a fare sì, che finalmente, il popolo iraniano possa liberarsi dalla dittatura che lo opprime.
La futura, auspicabile, caduta del regime, non potrà che modificare profondamente la geografia mediorientale, liberando grandi energie positive, ma perché questo possa avvenire è necessaria la persistente determinazione degli USA e la risolutezza di Israele a contrastare ogni tentativo iraniano di avvicinarsi troppo alle alture del Golan come quello, parallelo, di consolidarsi nella Striscia costruendo così una minacciosa triangolazione offensiva nei suoi confronti costituita da Gaza, Siria e Libano.
In questo senso, la partita è ancora tutta da giocare.
Niram Ferretti
[1] Matthias Küntzel, Il jihad contro gli ebrei: l’islamismo il nazismo e le radici dell’11 settembte, Salomone Belforte Editore, p.30.
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