Per evidenti ragioni storiche, l’approccio italiano al sistema multilaterale si è spesso tradotto nell’ esportazione di responsabilità e nell’ importazione di influenze. Il rafforzamento del rapporto bilaterale tra l'Italia e gli USA - nella stagione della Brexit e delle evidenti difficoltà dell’Unione europea - prende atto del nuovo (dis)ordine mondiale e ridefinisce gli interessi condivisi. La crisi del multilateralismo e della governance globale è un dato di fatto ormai incontrovertibile. Ma questa non è una novità: la debolezza decisionale dell'ONU e del suo Consiglio di Sicurezza risale alla crisi kosovara del 1999 e si è consolidata con quella irachena del 2003, quella libica del 2011 e quella ucraina del 2014, nonché a quella siriana tuttora irrisolta sul piano politico.
Il recupero della geopolitica (e soprattutto della geoeconomia) è reso necessario dalla regionalizzazione delle tensioni e degli squilibri sviluppatasi negli ultimi anni. In parallelo è necessario prestare attenzione alle difficoltà di ampi settori delle opinioni pubbliche interne, coincidenti con i Paesi e/o con i ceti della società che non hanno beneficiato della globalizzazione.
Questa dinamica vale anche per i mercati regionali, come nel caso degli allargamenti a Nord e ad Est dell'Unione Europea ovvero per il Nafta. L'elezione del Presidente Trump è rappresentativa di tale malessere, in particolare quale risposta alle distorsioni che la globalizzazione degli scambi, pilotata dal WTO, ha prodotto nell'interscambio americano con la Cina, con i vicini canadesi e messicani ed infine con l'Unione Europea a trazione tedesca. Il superamento del G7, concepito come risposta ai traumi monetari, finanziari e petroliferi degli anni '70, ha trovato nel G20 soltanto risposte deboli e reticenti, offerte fiaccamente dietro lo schermo della collegialità multilaterale. Di conseguenza, il metodo bilaterale ha recuperato attualità politica e forza.
Per l'Italia, in difficoltà nell'Europa delle asimmetrie e dei "double standards" a lungo subiti da classi dirigenti rassegnate, lo spazio atlantico offre ancora straordinarie opportunità. E lo stesso vale per quella nuova dimensione che la Brexit può aprire al nostro Paese quale hub finanziario, tecnologico e manifatturiero dell'Europa meridionale verso l'Africa, il Golfo, il Sudest asiatico e il Giappone; mentre con la Cina occorre cautela.
Ma è necessario evitare malintesi sia sul terreno politico di sicurezza che su quello commerciale e degli investimenti:
sul primo, la cornice atlantica della Nato resta la pietra angolare del rapporto transatlantico; l'attivismo franco-tedesco degli ultimi mesi in materia di difesa europea (cosa diversa dagli utili programmi di collaborazione e ricerca industriale) non può costituire un'alternativa praticabile e tantomeno una risposta alle esigenze di Washington sull'annoso tema del "burden sharing". Tuttavia, nella NATO il valore strategico e politico dell'Italia si è diluito negli ultimi 20 anni per effetto degli ampliamenti ad Est che hanno incrementato la valenza strategica di Paesi baltici, Polonia e Romania e persino soggetti minori quali l'Albania e il Montenegro nell'area adriatico-balcanica. Anche la rendita di posizione delle basi, certamente importante, rischia la banalizzazione nella "routine".
Sul terreno commerciale e degli investimenti, la conferma della posizione dell'Italia quale Paese fondatore dell'Unione europea alla vigilia di un'auspicata riforma, la dimensione atlantica degli interessi - sia italiani che americani - richiede una ricognizione approfondita delle nuove opportunità e degli strumenti appropriati. Si tratta d'altronde di un approccio da sempre praticato dai nostri partner europei nei loro rapporti bilaterali con il Paese leader dell'Occidente. Per i nostri operatori, è essenziale comprendere che gli Stati Uniti non sono circoscritti a "punti" quali New York, Los Angeles o Miami, ma comprendono macroregioni e relativi mercati quali il Midwest, il Texas e il New England, spesso in salutare concorrenza interna, fiscale e legale, per attrarre investimenti. In modo speculare, per le multinazionali americane la piattaforma tecnologica ed imprenditoriale italiana, oltre al mercato interno, deve comprendere il Nord Africa, Israele ed il Golfo. Sul versante della finanza, va valorizzata ed attivata la spesso menzionata circostanza che, accanto a un pesante debito pubblico, propiziato anche da una recessione decennale, l'Italia vanta un risparmio finanziario privato (escluso il patrimonio immobiliare) che si attesta oltre i 5500 miliardi di euro. Per questo Italia Atlantica, pur nella consapevolezza dei fattori di ritardo del nostro Paese sul terreno normativo-burocratico ed infrastrutturale, si propone di aprire un nuovo capitolo di uno storico rapporto attraverso una duplice, positiva sfida che va approfondita e promossa a tutti i livelli bilaterali, istituzionali ed imprenditoriali.
Sergio Vento
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