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Mazzini e l'Ucraina.

Aggiornamento: 7 set 2023




Il conflitto russo-ucraino è iniziato de facto nel febbraio 2014 quando in Ucraina si accese il desiderio di riappropriarsi della Crimea, una regione indipendente in qualche modo annessa alla Russia nel marzo 2014 ma non riconosciuta né dall’ONU né dalla UE come facente parte. La regione risultava più precisamente inserita all’interno delle Repubbliche della Russia. Era l’epoca della rivoluzione di Maidin, chiamata anche Euromaidin per le connotazioni filo-europee, poi terminata con la fuga proprio in Russia dell’allora Presidente Viktor Janukovyč. Un evento a seguito del quale l’Ucraina divenne una terra di conquista politica, di coscienza e di dissapori, tanto concreti quanto vitali per gli interessi di una Nazione.

Ma già nel 2013 il Segretario di Stato statunitense John Kerry, alla sua prima missione europea e mediorientale svoltasi a Roma, aveva manifestato l’interesse della politica estera americana, orientata verso un nuovo atlantismo. L’intento era quello di voler migliorare la sicurezza ed il libero scambio tra Stati Uniti ed Unione europea mediante un accordo atlantico con obiettivi ben precisi: creare anzitutto nuove alleanze Nato e stipulare, quindi, nuovi accordi di cooperazione su tutte le questioni di interesse occidentale. Sempre in quella sede il Segretario americano accese un importante faro sulla scottante questione siriana, un paese che era in quegli anni in piena guerra civile e, comunque, vicino agli interessi russi. Tanto che il Segretario di Stato dichiarò con vigore che “non si può essere forti nel mondo senza esserlo a casa propria” ed invitava, conseguentemente, il Congresso a trovare un accordo che consentisse di evitare tagli automatici alla spesa “senza senso” - con ciò riferendosi soprattutto alla difesa ed all’intelligence, fino a paventare una serie di possibili rischi connessi scaturenti da scelte così poco nazionaliste.

Non v’è dubbio che il significato della visita in Europa del Segretario Usa sarebbe risultato essere assai importante per il futuro dell’Europa e del Patto atlantico. Emergeva in effetti un interesse diplomatico estero nuovo, frutto dell’escalation della violenza terroristica in Siria, connesso ad una serie di rivoluzioni in vari paesi del mondo caratterizzate da consapevolezza ed ambizione. Affrontare un problema di sicurezza internazionale come quello causato dalle vicissitudini siriane ed irachene avrebbe anzitutto richiesto un rafforzamento delle alleanze internazionali, tale da far convergere i paese alleati al fianco degli Usa per rovesciare in primis il regime di Assad. Di lì a poco al Cairo la Coalizione nazionale siriana (con sede ad Istanbul, in Turchia) si sarebbe dichiarata persino pronta a negoziare un accordo di pace per porre termine al conflitto, purché il presidente non avesse avuto un ruolo nella trattativa da condurre esclusivamente sotto l’egida di Usa e Russia.

Una trattativa che non ebbe successo ma che sarebbe stata, forse, l’unica alternativa alla guerra in Ucraina.

Il ruolo dell’Italia nelle vicende estere di quel periodo non fu casuale. Un facile collegamento è ad esempio rinvenibile ricostruendo i fatti che avrebbero poi coinvolto la figura di Walter Biot, il sottufficiale della Marina italiana poi arrestato per spionaggio che avrebbe messo a breve piede nell’ufficio Politica militare e pianificazione e, comunque, già allo Stato Maggiore della Difesa dal 2008. Era a tutti evidente, infatti, il nesso che esisteva in Italia tra gli interessi della politica nazionale e la lotta al terrorismo internazionale, entrambi convergenti sulle operazioni militari internazionali.

Certamente l’incontro di Roma fu comunque il primo round politico che, purtroppo, predisse gli albori della guerra aperta in Ucraina. Dalla propaganda diplomatica che, come accennato, coinvolse anche l’Italia, fu subito chiaro che qualsiasi conflitto avrebbe necessitato ancora una volta di tavoli per auspicabili trattative, da costruire ancor prima di qualsiasi dichiarazione di guerra, formale o informale. Di qui il coinvolgimento della Cina, coinvolta nel 2020 nello scandalo dei laboratori di Wuhan (sebbene ben potrebbero esser stati altri i laboratori interessati da un’ipotesi di fuga di materiale ad alto pericolo chimico batteriologico, come ad esempio Praga o addirittura Roma - tanto per focalizzare l’attenzione più sul problema pandemico che sulle sue origini) - e della Turchia (le cui basi Nato destavano da tempo interesse e timore al Presidente russo, non solo per la vicinanza territoriale ma anche per le funzioni logistiche che il Paese poteva fornire verso la Siria ed il medio-oriente), identificati pro-attivamente dalla diplomazia internazionale quali mentori di possibili, seppur scarse, trattative tra Russia e Ucraina.

In quel periodo assunse un ruolo centrale la figura dell’On. D’Alema, un personaggio politico importante in Italia, è indubbio, ma poco affine al ruolo di controllore delle attività dei servizi quale Presidente del Copasir e Ministro degli affari esteri. Di sinistra, con freddi rapporti con l’amministrazione Bush, per primo interessatosi alla diplomazia con il Nord Africa in tema di crisi energetica e mix energetico. Confusosi poi con il problema internazionale dell’immigrazione e delle politiche delle Ong del mare. Tema di certo più di sinistra della finanza energetica.

Una centralità, quella dell’Italia, che mosse persino l’Onorevole Cossiga a richiamare sull’attenti la Magistratura inquirente, lui sì politico di lunga carriera in contesti internazionali complessi. Il settore giudiziario, nella sua intricata matassa, era infatti inevitabilmente ma presumibilmente percepito come una potenziale ed ambita vittima di una serie di attività di informazione-disinformazione (depistaggi) persino ad opera, viene da pensare, di soggetti esteri, di interessi stranieri in Italia. Fatto non nuovo alle vicende giudiziarie del bel Paese. E’ infatti noto che le Procure sono da sempre il tempio delle informazioni, il luogo dove sarebbe stato più semplice ottenere notizie fino a consentire di poter - alla lunga - sovvertire la politica nazionale. In un certo qual modo, condizionarla, così come del resto tra il 2008 ed il 2020 è avvenuto altrove. Con il rischio della manipolazione e dell’inaffidabilità consequenziale.

Si trattava dunque di prestare attenzione ad un interesse di sicurezza nazionale che solo i più esperti avrebbero potuto intendere nel dialogo (mònito) tra Palamara e Cossiga avvenuto a reti unificate. Il Giudice Palamara viveva infatti in una Procura, quella romana, interessata ancora al Caso Moro, alla figura di Steve Pieczenik, alla gestione dei flussi informativi. Ai c.d. chunk dell’informazione che, in tema di contrasto al terrorismo e privacy internazionale, avrebbero dimostrato nel 2023 l’importanza delle piste d’indagine finanziarie e l’importanza del segreto d’indagine, talvolta al limite proprio dell’interesse nazionale ovvero politico, come, ad esempio, le indagini SOS bancarie e le specific unlawful activities del “riservato” Maresciallo della Finanza dott. Striano. Già, perché si tratta di bilanciare uno strumento con un obiettivo i cui confini, sovente, si perdono tra porti di nebbie e la necessità di procedure di check and balance. Queste ultime coerente più con attività di intelligence che penali. L’attuale vicenda del Ministro della Difesa Crosetto esposto in prima persona su analoghe questioni in tema di normativa AML/CTF rappresenta in effetti il culmine della consapevolezza giudiziaria circa l’estensione delle indagini su flussi informativi internazionali, tanto da dimostrare come, talvolta, il perimetro del dibattimento, e delle indagini, deve necessariamente essere circoscritto da procedure rigide, indiscutibili, aggiornabili. Resta il fatto che se anni fa fu persino mossa da qualche Procura l’ipotesi di reato ex artt. 270-270 bis del codice penale in merito a presunte associazioni che avrebbero coinvolto magistrati e non solo, allora sarebbe stato anche ovvio indagare ipotesi di reato previste dai precedenti artt. 241 e seguenti del codice penale italiano. Difficile non concatenare eventi e cause, sulla scorta di una presunzione di semplice complottismo.

Ora, muovendoci con una logica processuale, se dovessimo descrivere il perimetro investigativo di un “Caso Ucraina” esso si connoterebbe senza dubbio degli elementi della guerra di quarta generazione: di un conflitto, cioè, complesso ed a lungo termine, dove è il terrorismo a rappresentare l’elemento tattico. In essa i confini sono transnazionale o, meglio, altamente decentralizzati, con attacchi diretti alla cultura del nemico, compresi atti di genocidio contro i civili, con l’utilizzo di tutte le pressioni disponibili: politiche, economiche, sociali e militari che inevitabilmente comportano conflitti a bassa intensità contro attori di tutte le reti. Invero se ne parlò già in Italia negli anni di piombo, riguardo alla strategia della tensione, durante il socialismo italiano.

Viene quindi ovvio suppore che simili conflitti non necessitino di alcuna diplomazia, perché non hanno chance. E l’impossibilità della diplomazia nel raggiungere un qualsivoglia risultato su un round neutrale è senza dubbio l’elemento comune di entrambi i contesti citati, quello siriano e quello ucraino, avvolti dal perenne conflitto tra gli Usa e la Russia maturato durante la Guerra Fredda.

Così come è evidente lo stretto legame tra il conflitto ucraino e la questione siriana, se non altro alla luce degli interessi esteri Usa e della difesa americana; due circostanze, Cairo ed Ankara, che avvalorano oggi la tesi che vedrebbe il terrorismo siriano più attivo di quello iracheno, anche considerata la recente abolizione dei Tribunali militari in Siria avvenuta del settembre 2023, un ultimo atto di guerra contro i principi liberali occidentali. Due contesti, Siria ed Ucraina, dei i quali però soltanto la Siria parrebbe attirare le mire politiche della Casa Bianca. Infatti l’avanzata ideologica in atto verso occidente dal medio-oriente attraverso le Repubbliche della Russia (“From cold war to hot peace”) di cui la Crimea sarebbe persino parte non avrebbe di certo incontrato ostacoli fin dentro al continente europeo, se non fossero stati eretti degli argini dal leader Zelensky. Il venir meno della linea del Danubio non è stato alla fin fine sufficiente. Tanto che viene logico ritenere che l’Ucraina interessi all’occidente più come territorio di conflitto tra Russia e Nato che come palcoscenico per un rinnovato endorsement politico. Tanto che il futuro dell’Ucraina, una volta terminata la guerra in corso, dipenderà dai leaders che verranno, non certo dalla popolazione.

E’ vero che da un lato la politica occidentale adottata è stata una, quella della coesione, perché di fatto gli Usa hanno chiesto all’Europa un interventismo senza misura dal dopo-guerra all’Alleanza; richiesta alla quale gli Stati europei hanno prontamente dato seguito. In sintesi sarebbe stata testata la credibilità e la flessibilità degli Alleati rispetto all’allargamento Ue verso l’est.

Tuttavia, d’altro canto, il fatto che la vicenda di Maidin fosse in qualche modo connessa con la guerra civile siriana era e resta difficile da contestare. Il linguaggio diplomatico comune adottato dagli attori scesi in campo fu infatti sostanzialmente simile: sia la Russia che la Santa Sede, il pericolo comunista e la religione cristiana, erano ad esempio convinti di muoversi in un sentiero di pace “fra tutte le parti coinvolte”.

Quando però l’Italia, la terra di Mazzini, ospitò il Gruppo di lavoro sulla Siria nel 2013, sulla scia delle decisioni dell’Ue, decisa a prolungare le sanzioni contro la Siria, l’allora Ministro degli esteri italiano Giulio Terzi propose al Gruppo di aumentare gli aiuti militari ai ribelli siriani sotto forma di assistenza tecnica, addestramento e formazione. Fu una proposta forte, opposta alla diplomazia pacifista, enunciata proprio sul terreno italiano che ospitava il Gruppo. Di fronte alla Santa Sede. Una strategia unitaria che, da allora, sarebbe diventata concretamente comune tra gli atlantisti in Siria, così come attualmente in Ucraina.

Che dunque la guerra in Ucraina fosse stata prevista, che fosse prevedibile un conflitto sul campo, è certo. Lo è per molteplici motivi tra i quali, non da ultimo, la consapevolezza dei pericoli dovuti al terrorismo internazionale, temuti sia dai russi che dagli occidentali, oltre al recondito timore che certe strategie della tensione potessero minare i nuovi governi occidentali e non solo, anche quelli filo-russi, sull’onda dei populismi dirompenti, magari mossi non più da nobili ragioni liberali e sotto drappelli colorati ma con armi e divise da insurrezionalisti.

Ma se il risorgimento dell’ottocento diede forma a Stati-nazione, viene anche da chiedersi quale modello si prefiggono ora i nuovi insurrezionalisti? Quale capacità programmatica avrebbero?

La diffusione della cultura del dubbio dei movimenti colorati prospettò così all’orizzonte i fuochi del dualismo, sempre esistito, tra politica ed anarchia, l’esaltazione del demos e del conflitto. La metafora dei “muri” di Trump, impiegata tra le nuove fondamenta americane descritte all’assemblea Onu del 2019 quando il Presidente Usa esplicitamente dichiarò che “il futuro appartiene ai patrioti, non ai globalisti”, diventava il tal modo alla portata di tutti. Della Corea, della Cina, del Messico, del Brasile… E, sicuramente, l’abbandono del medio-oriente ad opera dell’amministrazione Usa fu una scelta intelligente, sia politica che militare. Sul versante politico perché il medio-oriente avrebbe avuto conseguentemente maggiore autonomia per sviluppare correnti liberali (secondo la politica del consenso); sul fronte militare perché, per dare spazio all’insurrezione in medio-oriente, sarebbe stata necessaria un’esperienza occidentale condivisibile, come quella ucraina per esempio. D'altronde le vicissitudini israeliane e palestinesi non ebbero un successo tale da poter essere riproposte senza generare aperti contrasti. Lì il successo fu diplomatico e militare (il medesimo humus): ciò che invece occorreva in Siria, Iran, Iraq era il successo pieno sul versante politico, come del resto precedentemente accennato.

Eppure ovunque il timore della perdita di potere delle elité, un timore per decenni ovattato dalla globalizzazione, era e resta la linfa del terrorismo anarchico. Del resto, come all’epoca di Ali Acga, la pista terroristica eversiva era e tuttora è la migliore interpretazione degli scenari internazionali. Semplicemente perché qui si muovono soldi ed informazioni. E’ proprio questo lo strumento che consente il moltiplicarsi di round internazionali, dove gli interessi globali sono obbligati ad essere diffusi. Il terrorismo sembrerebbe addirittura essere l’elemento dominante i conflitti moderni (post 11 settembre, si intende) perché alimentato dallo scontro tra plutocrazie - che vivono sulle onde del nazionalismo - e populismi, gli esclusi. Non sarebbe sbagliato persino ritenere che il fine del terrorismo internazionale non sia oggi sovvertire governi, intimidire popolazioni, ma creare nuove classi sociali, già escluse, manipolabili, controllabili. Per poi essere nuovamente cancellate.

Che sussista dunque uno scenario oscuro, all’interno del quale molti attuali conflitti risultano essere alla fin fine mossi da gruppi di expertise sul terrorismo, è evidente. Così come il fatto di ritenere la pandemia Covid un presunto atto di terrorismo è sicuramente una lettura politica, per quanto non dimostrata, eppure capace di riaccendere un conflitto su scala sovranazionale: il welfare. Che, conseguentemente, tra terrorismo politico e terrorismo anarchico non debbano esservi sommari ma fondamentali legami è certo, almeno stando alle necessità degli Stati-nazione che necessitano di avere lideres maximos, plutocrati, capaci di politicizzare, non di intimidire o coartare. Lo insegna la terra di Mazzini, l’Italia, che visse scenari terroristici ed eversivi nel secolo scorso di tale rilevanza da potere, in epoca moderna, godere di quel patrimonio investigativo di tutto rispetto; Italia che oggi, cimentandosi tra populismi e nazionalismi, si assume persino il rischio di perdere la democrazia. Di perdere l’expertise.

Che dunque la guerra ucraina sia alle nostre porte è evidente. Quelle dell’Europa, dell’Italia. Magari in forme diverse ma, di certo, anche per noi il conflitto ucraino rappresenta una guerra quotidiana, uno scontro morale. Tanto da poter giustificare gli interventisti con svariate argomentazioni, oltre alle ragioni che seguiranno, ben oltre il neutralismo liberale.

Che peraltro sin dalla guerra in Iraq nel 2003 vi fosse il sentore di dover limitare, contrastare, l’estensione degli interessi russi, perlopiù attraverso una forte opposizione ai socialismi illiberali dell’est, era e rappresenta anch’essa una necessità liberale. Era cioè concreto nel 2003 il pericolo di nuove insurrezioni di stampo socialista nel mediterraneo, organizzate e finanziate attraverso le sommosse sindacali (al punto che di lì a poco si sarebbe mossa l’Arab spring) e le classi operaie, che avrebbero posto la questione dell’immigrazione - anziché del terrorismo - al centro degli interessi atlantici, sovvertendone così le priorità. Ecco ancora uno scontro tra elité e demos, tra tensioni endogene, come il terrorismo, ed esogene, come l’immigrazione. Frugando nella storia, viene in mente come l’operazione mare nostrum, quella politica e militare con Italia e Libia al vertice per fermare gli sbarchi affinché l’anarchia degli stessi non diventasse un’arma politica di distruzione del Mediterraneo fu, anche, un esempio di lotta al terrorismo, politico. Così come quando l’Italia assunse un ruolo di tutto rilievo, negli anni settanta, con l’Eni di Mattei, epoca in cui gli americani si opposero a Mattei, fino a prediligere la penisola araba lasciando ai francesi ed agli inglesi il nord Africa: anche queste furono attività politiche di guerra (finanziaria). Di conflitto. Quando i primordiali accordi energetici del 2007 tra Italia e nord Africa si imbatterono, poi, nella vicenda di Giulio Regeni del 2016 che coinvolse importanti interessi petroliferi, questo non fu forse il pretesto per una nuova incrinatura della diplomazia tra Italia e le ambizioni sull’oro nero?

Ebbene, ancora una volta, in molti scenari che coinvolgono l’Italia è facile riconoscere alcune strategie ricorrenti come la soluzione giudiziale (vedasi l’operato della Procura di Roma) e quella politica, plasmata sulla presentazione dello studente italiano e con istruzione inglese (quasi una doppia cittadinanza) con pericolosi legami con i sindacati arabi (nazionalisti) che, inconsciamente, avrebbe favorito all’Italia l’entrata in campo dell’arma più temuta in guerra: la diplomazia. Un braccetto tra politica e giustizia che, francamente, così descritto potrebbe anche far paura. Ma le considerazioni che precedono vorrebbero semplicemente dimostrare che persino dove la diplomazia non esiste, o dove non dovrebbe affatto esserci, eppure essa si mostra irrompendo, dando agli scenari un più largo respiro. Si comprenda quanto segue.

La provvidenza storica volle che nel 2004 si verificasse un fatto nuovo. Muovendo l’opposizione del demos contro l’illiberismo, proprio in quell’anno in Ucraina scoppiò la rivoluzione arancione. Una rivoluzione che si inserì nel percorso di una serie più estesa di rivoluzioni colorate, a macchia di leopardo, che coinvolsero prima la Georgia nel 2003 (un paese invitato ad entrare nella Nato nel 2008 dal Presidente Bush), ancor prima la Yugoslavia nel 2000 (peraltro bombardata dalla Nato nel 1999), poi il Libano ed il Kirghizistan nel 2005: aree calde, allora come oggi facilmente contestualizzabili all’interno di una visione militare sovietica di largo respiro. In tutti questi casi, infatti, si trattava di stati post-sovietici dove la popolazione pareva muoversi in opposizione a governi corrotti ed autoritari. Fu ad esempio proprio la guerra in Kosovo del 1999 a rappresentare la chiusura degli interessi dell’ex Urss in Europa. Come è certo che la perdita del Kosovo e della Crimea rappresentarono un’aperta dichiarazione di guerra agli interessi russi, ora culturali, ora economici, da parte della Nato.

I movimenti anzidetti erano però tutti movimenti non violenti e di disobbedienza civile caratterizzati dall’essere filo occidentali ed opposti ai filo-russi, per così dire diplomatici, tanto che sarebbero poi risultati assai prossimi ai progressisti gilet gialli francesi del 2018; questi ultimi risultati essere di certo democratici ma capaci di scatenare violenza e disordine, quindi diversi rispetto agli insurrezionalisti pacifisti delle rivoluzioni colorate e pur sempre estranei alla politica del potere. Sarebbe esatto ritenere i gilet gialli un autonomo e spontaneo esperimento democratico, tenutosi all’interno degli Stati-nazione europei, capace se non altro di rappresentare un index delle future sovversioni non violente dell’ordine precostituito. Un movimento, per così dire, esportabile. Chi li seguì agli esordi ebbe modo di scongiurare un pericolo nel cuore dell’Europa e di contrattare, nel contempo, il matching tra politica e finanze pubbliche, tra necessità e prospettive.

Certamente l’ombra delle tensioni anarchiche fece balzare l’intelligence di tutti gli Stati con confini vicini ai luoghi delle rivolte, fino a scatenare una guerra di informazioni, d’intelligence, senza confini definiti. In effetti è questa la più classica delle attività operative che preludono i conflitti. Ed anche questa volta l’eziologia non è stata smentita. Ma è anche noto che spesso l’intelligence sbaglia! E proprio così, ci azzecca. Quando agli albori del 2007 la Grecia ebbe a che vedere con le tensioni finanziarie poi scoppiate nel 2012, quando il contagio finanziario della Lehman Brothers mosse i primi dubbi sull’asset management e sul legame tra debito privato e debito pubblico nel 2006, quando persino l’Italia dovette muoversi per allineare le duration del debito pubblico al rischio-rendimento di mercato nel 2007, magari con una ri-programmazione del debito decennale, quando l’allora Ministro Theresa May dovette interessarsi dell’immigrazione inglese e, più in generale, dell’immigrazione internazionale in vista delle questioni sulla futura Brexit. Oppure quando nel 2008 tra Strasburgo e Nancy, in Francia, iniziarono i malcontenti della popolazione francese… in tutti questi contesti gli exploratores e gli speculatores delle attività istituzionali sono stati in grado di anticipare, programmare, attuare, piani di intervento mirati, predicendo e dando risposte utili alla politica e non agli organismi di appartenenza. Dimostrando quindi al nemico capacità inimmaginabili sul piano tattico e strategico. Dando prova di alta affidabilità sul piano politico.

In fondo, uno Stato senza intelligence semplicemente non esiste. L’attacco terroristico su scala globale agli Stati-nazione è certamente fallito.

Di fatto l’Europa era già in guerra dal 1999. La guerra fu semplicemente estesa contro il terrorismo, s’intende, dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001.

Come nel più classico dei fenomeni attenzionati dall’intelligence, il terrorismo accese dapprima tre fuochi (obiettivi raggiunti) in America con i malcapitati voli 11,175,77. Il volo cieco, contro il Campidoglio si presume, fallì fortunatamente per una rivolta interna ad opera dei passeggeri del velivolo.

La risposta americana fu similare: furono accesi tre fuochi (Ucraina, Siria, Taiwan ovvero Corea del Nord) ed un cieco (Taiwan o Corea del Nord, alternativamente, rispetto alla reazione cinese). E’ quindi lecito ritenere che il terrorismo siriano-iracheno fosse intento già dal 2013 a causare molteplici conflitti contro il leader Nato statunitense al fine di disarmare il Paese in casa, almeno in termini di risorse umane e morali.

A seguito degli eventi dell’11 settembre fu anche chiaro che la guerra fredda sarebbe terminata definitivamente, ora con il nuovo fronte arabo, ora dopo la rivoluzione arancione del 2004. Luoghi attigui geograficamente ma diversi per rivendicazioni e popolazioni. Con il tempo terminò pian piano anche un certo modo di fare guerra; e ne iniziò un altro, più sagace. Tanto che dopo l’attentato a Charlie Hebdo avvenuto a Parigi nel 2015 la cooperazione Nato - Russia si raffreddò notevolmente fino a spingere il Ministro della Difesa britannico Fallon a dichiarare di voler potenziare gli armamenti nucleari in risposta ai potenziamenti nel Mar Nero delle flotte russe. Le attività militari a ridosso dell’Ucraina furono in effetti l’inizio dell’incertezza strategica messa in atto dalla Russia per minare la coesione politica occidentale. Ed in ben dieci anni intercorsi tra i due eventi, mutuò il fronte del conflitto, passando dalla guerra al terrorismo alla guerra tra plutocrazie. Tensioni che culminarono irrimediabilmente con l’abbattimento di un aereo russo ad opera della Turchia, un alleato Nato strategico, al confine nord-ovest della Siria. Ustica docet.

Sotto la guida di Startenberg, nel 2015 la Nato assunse così una posizione radicalmente nuova sulla propaganda e contro-propaganda, dichiarando che le “attività interamente legali, come la gestione di una stazione televisiva pro-Mosca, potrebbero diventare un assalto più ampio a un paese che richiederebbe una risposta della NATO ai sensi dell'articolo cinque del Trattato ... Una strategia finale è prevista per ottobre 2015”.

Le vicende storiche citate sono tutte evidenti esempi di mezzi di guerra ora non violenti, ora violenti, ora economici e militari, impiegati a vario titolo dove l’assenza di leader rafforza l’oligarchia, nella prospettiva che uno Stato democratico liberale debba essere progettato per impedire agli amministratori pubblici di violare i diritti degli individui in nome del governo della maggioranza. Se queste attività siano state coordinate da una regia occidentale non è possibile dirlo. Di certo, nella vita reale la mancanza di leader permette semplicemente a chi urla più forte, a chi ha più carisma, a chi manipola e a chi minaccia di dominare ed intimidire tutti gli altri, senza dover assumere alcuna responsabilità (Bruce Hartford, veterano diritti civili anni 60).

Ma il populismo delle rivoluzioni colorate chiedeva anzitutto questo: responsabilità, un problema di giustizia.

Il problema della guerra giusta o ingiusta, il problema della giustizia e del rapporto tra uguaglianza e libertà, socialismo e liberalismo, la questione della democrazia e del pluralismo erano i temi delle rivoluzioni bianche, risultate poi inidonee a poter criticare il potere, incapaci di gestire in autodisciplina un conflitto politico partendo dai diritti civili. Infatti, è bene ricordarlo, “la teoria della guerra giusta è nata al servizio dei poteri. Essa è fatta per essere criticata” (Michel Walzer, Arguin about war, London, 2004). Ciò che si dimentica è che, pragmaticamente, la teoria della guerra giusta nasce con l’intelligence. E soltanto lì vive.

Pertanto la critica non poteva che muoversi tra le ragioni dell’occidente e quelle dell’oriente, silenti fino al febbraio 2022, convinte che lo scontro potesse restare ancora confinato solo sul fronte economico, finanziario, culturale, politico.

Superato questo limes la guerra è divenuta in Ucraina concreta, reale, disastrosa: dal piano giuridico, essa si è calata su quello morale. Dallo jus ad bellum allo jus in bello, fino all’autodifesa individuale. I diritti civili che mossero le rivoluzioni colorate erano qualcosa di più dei diritti individuali; le comunità, necessariamente particolari, avrebbero fatto sopravvivere le comunità politiche soltanto attraverso l’integrità territoriale e la sovranità politica.

Sicuramente devono essere state simili necessità ad aver mosso l’occidente per un appoggio a Kiev. Di colpo è stato inoltre richiesto all’occidente di discernere tra fake news e good news, tra populismi e nazionalismi, fino a dover appellarsi ad un’antesignana posizione di assolutismo morale: il diritto ad essere neutrali. Persa la neutralità, la capacità di astenersi o meno dall’intervenire in un conflitto, v’è infatti la legittimità alla guerra. In concreto, è stato proprio il demos a garantire legittimità alla guerra: da un lato l’atlantismo, nella sua veste culturale nonché militare, dall’altro il socialismo, nella sua veste divoratrice di risorse fisiche ed umane.

Quanto sopra riporta alla mente gli eventi bellici della Repubblica Romana, che cadde contro le forze francesi, esempio di lotta di liberazione, di guerra patriottica. Mazzini, seguendo le orme di Machiavelli e rifiutando il ruolo dei mercenari, considerava infatti un dovere dei cittadini l’arruolamento per difendere la propria patria, convinto della forza intrinseca espressa da un esercito di popolo.

L’Ucraina pare proprio ricordare un particolare aspetto del pensiero mazziniano: quel nazionalismo capace di plasmare un’identità nazionale grazie alla lotta di liberazione, superato dalla scelta di fratellanza tra popoli - la Giovine Italia, la Giovine Europa e oggi la strenua volontà di Kiev di entrare nell’Unione Europea. Tutte aspirazioni soffocate da occupazioni ed invasioni militari che hanno richiesto alle genti di diventare militari, nella convinzione che se quest’ultimo è disposto a morire sul campo di battaglia, allora anche il non-violento militante deve essere disposto ad accettare questo rischio (Gandhi).


Angelo Mucci


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